lunedì 29 luglio 2013

Vittorio Sereni, il poeta dell'Europa


«A quest’ora / innaffiano i giardini in tutta Europa». Così si apre, con un attacco memorabile, Concerto in giardino. Scritta nel 1935, non è la prima poesia di Sereni, ma per molto tempo fu il testo al quale l’autore affidò l’incarico di accogliere il lettore sulla soglia del suo primo libro. Il tempo fisso, puntiforme, declinato al presente («A quest’ora») è la premessa alla dilatazione dello sguardo, fino ad immaginare uno spazio di dimensioni europee: un continente che ancora non conosce le tragedie della guerra e dove il gesto buono, positivo, dell’innaffiare i giardini si fa simbolo di un destino comune, di una storia condivisa.
Nato cento anni or sono a Luino, Sereni è probabilmente il poeta in cui il nome d’Europa compare con maggiore frequenza, e sempre in passi di grande investimento emotivo. «Europa Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio / esile mito tra le schiere dei bruti, / sono un tuo figlio in fuga» scrive in Italiano in Grecia, poco dopo aver fissato a Belgrado «una tranquilla ora d’Europa». L’abitudine a considerare lo spazio in termini geografici, oltre i confini della provincia in cui è cresciuto, dev’essergli stata suggerita dalla vicinanza con la “frontiera” elvetica di Zenna, un’immagine che è diventata ben presto metafora di un orizzonte più vasto, dolce e drammatico al tempo stesso, a causa delle continue peregrinazioni cui l’hanno costretto gli anni di guerra.
Sereni ha condiviso insomma, con una generazione di ritardo, la sorte di Giuseppe Ungaretti, poeta-milite che per i natali ad Alessandria d’Egitto ha sempre guardato da sud alla realtà europea, mai dimentico dei suoi legami con il Mediterraneo. Altre coste divennero però tristemente celebri nei mesi in cui il poeta di Frontiera si trovava prigioniero nell’Africa del Nord: «Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. / Per questo qualcuno stanotte / mi toccava la spalla mormorando / di pregar per l’Europa» (Diario d’Algeria).

lunedì 8 luglio 2013

Alessandro Stellino - Ogni animale muore nella tana (Il Maestrale)


La Sardegna di Stellino non è l’isola delle vacanze. Accantonato l’idillio estivo, in lui rimane traccia dell’atavica terra dei pastori, dal Padre padrone di Ledda al Giorno del giudizio di Satta; soprattutto molto cinema, molto far west, molta cultura americana. Ogni animale muore nella tana prende a prestito il titolo da un verso di Robert Frost: «All animals are smothered in their lairs». Non di animali parla però questo libro – aspro, duro, a tratti durissimo – ma di uomini che, per incapacità o degrado, si riducono ad essere tali, anzi peggio, in un mondo dove l’aria si fa sempre più asfittica e gli spazi sempre più chiusi.
Merito di Stellino è l’aver tradotto in una lingua efficace, poetica, scolpita nel marmo, un immaginario che pare nato da una costola di The Road, il capolavoro apocalittico di McCarthy. Pochi i personaggi della sua storia, intenti a sopravvivere in una terra scampata al disastro: un uomo con il suo pickup, una ragazzina zingara, qualche figura minore. In un libro composto di così pochi elementi lo stile diviene il protagonista: la pagina non scivola in fretta nell’assillo di esporre fatti, ma s’impone con calma sotto gli occhi del lettore, assume forma grafica e detta il ritmo della lettura, le mani ben salde sulle briglie del discorso.
Stupisce come l’autore sia riuscito a passare da un romanzo improntato sull’oralità (Incendi) a un libro in cui i silenzi pesano come macigni. Non una parola esce infatti dalle labbra della protagonista e i discorsi diretti degli altri personaggi, privati delle virgolette, si riducono quasi a pensieri, a fiato privo di suoni, frammenti di monologhi interiori.
Alessandro Stellino si candida insomma al ruolo di anti-Dicker, l’autore ginevrino che spopola con La verità sul caso Harry Quebert: costringere il lettore a girare pagina è senz’altro un merito, ancor di più se il propulsore è nella lingua, nello stile, nel passo controllato della sintassi e non in meccanismi polizieschi appresi nelle scuole di scrittura.

lunedì 17 giugno 2013

Tommaso Soldini - Uno per uno (Casagrande)


Uno per uno è un oggetto letterario insolito: a tratti molto buono, a tratti invece non compiuto. Il titolo parrebbe una contrazione egoistica del motto “Uno per tutti, tutti per uno”, del quale si salvino soltanto gli estremi. È questa la chiave d’accesso al libro, nato dalla giustapposizione di più storie narrate in prima persona, come una lunga confessione corale: Glauco, Maura, Davide, Maddalena, Martino, Vittorio, Esra, Simone… A riunire le loro voci un escamotage ben noto alla novellistica medievale, una cornice, espediente che in questo caso non riesce però a traghettare la misura breve del capitolo nella misura lunga del romanzo, portando in luce la sua natura ibrida, irrisolta, di una torta non cotta a puntino.
Memore del crocevia di destini che fu Casablanca, Soldini porta in Marocco, a Essaouira, i protagonisti del suo libro, ciascuno con la sua parte di sconfitte e disillusioni. Sulla costa africana si incrociano così i desideri della donna di origini meridionali tormentata da problemi di peso, dell’architetto senza lavoro ma con troppi soldi, della ragazza affascinata dalle spiritualità orientali e della giovane turca con un passato terribile di prostituzione e violenza.
L’intenzione dell’autore, dichiarata nella quarta di copertina, era «toccare i nervi scoperti di tutta una generazione» – la sua (la nostra), di chi, indipendentemente dalla provenienza, è cresciuto nella prospera Svizzera degli anni 80 e 90. Letto il libro, questo non può evitare di mostrare purtroppo ciò che più lo caratterizza in negativo: un deficit di speranza e un eccesso di stereotipo. Il dubbio insomma è che una carrellata di casi-limite non sia il modo più indicato per descrivere la crisi di una generazione, tanto quanto le notizie estreme che leggiamo ogni giorno sui giornali finiscono per mancare il bersaglio di una realtà insieme più tragica e più bella (attraente nel senso pieno del termine), cosa a cui la letteratura ha sempre guardato con interesse e a cui guarderà sempre.

lunedì 14 maggio 2012

Giovanni Orelli, l'ultimo Gran Premio Schiller



Parto da un dubbio: se la prosa di Giovanni Orelli non sia in fondo oggetto eccentrico rispetto alla tradizione letteraria italiana, almeno quanto lo fu quella di Gadda. E così come è esistita una funzione Gadda, si potrebbe quasi azzardare una funzione Orelli che spieghi gran parte dell’espressionismo letterario svizzero di lingua italiana. Tutto ha inizio con L’anno della valanga (1965), un romanzo che ha pochi eguali in Ticino e pochissimi tra quelli che il Ticino lo abbiano messo veramente a tema (Il fondo del sacco, Il Signore dei poveri morti). Lì incontriamo per la prima volta il personaggio-tipo di Orelli: un giovane brillante e disilluso, acuto fino ai limiti del cinismo, in pacata lotta con la tradizione da cui proviene (ci sarà forse anche qualcosa di autobiografico); e lì lo scrittore di Bedretto inizia a saggiare sulla pagina un modus scribendi che ha molte affinità con l’istituto della bestemmia. Intendo la bestemmia come sistema retorico, come voce di un autore che punti il dito verso Dio e gli dica «Io non sono d’accordo. Io ti sfido». Può darsi che un simile atteggiamento letterario abbia dato fastidio, negli anni, a qualche lettore, eppure la sua efficacia è innegabile, così come è evidente che al fondo, alla radice, il problema suscitato sia dei più seri. Nei libri successivi, da La festa del Ringraziamento (1972) a Da quaresime lontane (2006), cambiano i temi e le ambientazioni ma il “modulo” rodato non subisce che lievi ritocchi. Si assiste semmai al frammentarsi sempre più aspro della sintassi, all’infittirsi di citazioni e rimandi, insomma al venir meno della tensione narrativa in favore del discorso sociologico e culturale. Di qui la fama di scrittore difficile, non per tutti i palati. Se è vero però che il metodo è imposto dall’oggetto, l’unica via è tornare a leggere Orelli con gli strumenti che la sua prosa richiede: il bisturi, il dizionario, l’occhio indagatore e colto di chi abbia molto tempo a disposizione e molte letture alle spalle.

venerdì 6 aprile 2012

Giovanni Pascoli, lode a un poeta epico (6 aprile 1912)



«Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l’attenzione e l’ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male» (Il fanciullino, XX).
Nel giorno del centenario (morì a Bologna il 6 aprile 1912) un invito a rileggere Giovanni Pascoli senza Giovanni Pascoli, o meglio senza il Pascoli che ci hanno raccontato a scuola e che ancora si incontra (psicanalizzato, frammentato, ridotto a un fantoccio) in molta produzione critica contemporanea. Si rilegga Myricae senza pause, tutto d’un fiato, per apprezzarne continuità e variatio, con l’orecchio della mente proteso alla più antica tradizione epica, omerica e virgiliana. Si rileggano i Poemetti e i Canti di Castelvecchio per coglierne la tensione linguistica spregiudicata e audacissima, precorritrice di tanto Novecento in poesia come in prosa.
Soprattutto, però, si rileggano i Poemi conviviali e le Canzoni di Re Enzio, libri apparen-temente più aridi e letterari, eppure così pieni di visione, di fiducia nel potere demiurgico della parola poetica, di enfatico e controllato calore verbale. In questi omaggi al mondo greco-latino e medioevale, filtrati da letture storiche e letterarie, Pascoli mostra il suo vero volto di poeta: un volto epico, narrativo, ambizioso, classico nella compostezza del ritmo e dello stile ma moderno nella libertà di selezione di temi e linguaggi; un volto non molto diverso da quello di Myricae o Castelvecchio, e però più delineato di quello, più fermo nei lineamenti e nell’esposizione della propria volontà e proprio per questo meno travisabile o psicanalizzabile (di qui il sostanziale silenzio su questi libri nelle aule scolastiche).

lunedì 16 gennaio 2012

Gianfranco Contini nel centenario della nascita (4 gennaio 1912)


Di fronte ai nati nel 1912 bisogna chinare il capo in segno di riconoscenza: da Amado a Pollock, da Caproni a Cheever, passando per Ionesco, Morselli, Congdon, Doisneau, Einaudi, Frye... In una tale messe di anniversari è passato in sordina il ricordo di Gianfranco Contini. Nato a Domodossola il 4 gennaio, Contini ha rappresentato per l’Italia un’accelerazione improvvisa e un punto-di-non-ritorno in almeno tre ambiti della ricerca: filologia, critica stilistica e dialettologia. Con precoce maturità seppe mettere a frutto quanto aveva appreso nelle Università di Pavia e Torino, senza dimenticare una proficua parentesi parigina alla scuola di Joseph Bédier. Il suo nome si lega inoltre alla cattedra di filologia romanza dell’Università di Friborgo, dove fu docente dal 1939 al 1952. Dopo vari tentativi, riuscì infine a rientrare in Italia, dove concluse una carriera brillante sempre contraddistinta da generosità e rigore.
Chi cerchi informazioni sulla sua opera troverà facilmente dove documentarsi; meno noti sono invece gli aspetti che esulano dalla sua attività intellettuale. Chi era, in altre parole, l’uomo Gianfranco Contini? Una via, silenziosa e affascinante, sono le fotografie, di cui anticipiamo alcuni campioni inediti quale saggio di un lavoro che potrebbe diventare un libro. Se è vero che Contini amava gli album dedicati agli scrittori – ebbe parole di elogio per il Pessoa della Lancastre – è da credere che non gli dispiacerà troppo questa intrusione nella sua vita personale. Eccolo dunque adolescente oppure, con i celebri baffi, sulla tessera del Comitato di Liberazione Nazionale; o ancora con i figli Riccardo e Roberto a passeggio per le strade di Maiano. L’immagine che ne restituisce la più vera essenza è però la prima, dove seduto sull’erba accanto a uno dei figli guarda lontano con l’ausilio di un cannocchiale: emblema di una vita spesa ad osservare, ad accertare i dati più minuziosi e sensibili, con un gusto per la scoperta e per l’avventura intellettuale.






martedì 20 dicembre 2011

Dizionario imperiale (ristampa anastatica)


Si deve a Carlo Ossola la prima intuizione che ha portato alla ristampa anastatica del Dizionario imperiale, opera quadrilingue (italiano, francese, tedesco, latino) di cui si conserva una rara copia nell’Archivio storico della Città di Lugano. Stampato per la prima volta a Francoforte nel 1700, il volume ebbe tale fortuna da divenire quasi sinonimo di dizionario plurilingue. Se lo si ripropone oggi e proprio a Lugano, è per più ragioni. Innanzitutto, va da sé, conservativo-documentarie; ma non solo. Nel recente dibattito attorno all’importanza dell’italiano nel contesto linguistico svizzero, una ristampa come questa ha il merito di ricordare all’opinione pubblica la dimensione ideale di ogni sforzo culturale seriamente inteso, il potenziale di significato insito in una pubblicazione che non sottostà alle aride leggi del mercato editoriale. Chi acquisterebbe, in tempi di crisi, un volume costoso con la certezza di leggerne, se va bene, un cinque percento? Eppure è esattamente quanto accade con i dizionari, libri la cui vita è per lo più in absentia, fermi su uno scaffale a rappresentare in silenzio il patrimonio linguistico di una cultura e di una nazione (e pronti a fornire risposte soltanto se interrogati da intelligenze curiose). Un dizionario, in altre parole, vale tanto aperto quanto chiuso. Non andrebbe mai dimenticata infatti l’intuizione saussuriana secondo cui una lingua è al contempo attuazione pratica (parole) e sistema linguistico (langue). Soltanto tenendo nella giusta considerazione entrambi questi aspetti è possibile leggere un fenomeno complesso come quello di una lingua di minoranza in una nazione plurilingue come la Svizzera. I numeri diranno forse che l’italiano (in quanto parole) è oramai prossimo ad una lingua regionale, ma la difesa dell’italiano in quanto langue (in tutto il suo potenziale semantico e culturale) necessita di criteri che non siano meramente statistici o matematici, per recuperarne – come in un dizionario – la dimensione ideale.