lunedì 14 maggio 2012

Giovanni Orelli, l'ultimo Gran Premio Schiller



Parto da un dubbio: se la prosa di Giovanni Orelli non sia in fondo oggetto eccentrico rispetto alla tradizione letteraria italiana, almeno quanto lo fu quella di Gadda. E così come è esistita una funzione Gadda, si potrebbe quasi azzardare una funzione Orelli che spieghi gran parte dell’espressionismo letterario svizzero di lingua italiana. Tutto ha inizio con L’anno della valanga (1965), un romanzo che ha pochi eguali in Ticino e pochissimi tra quelli che il Ticino lo abbiano messo veramente a tema (Il fondo del sacco, Il Signore dei poveri morti). Lì incontriamo per la prima volta il personaggio-tipo di Orelli: un giovane brillante e disilluso, acuto fino ai limiti del cinismo, in pacata lotta con la tradizione da cui proviene (ci sarà forse anche qualcosa di autobiografico); e lì lo scrittore di Bedretto inizia a saggiare sulla pagina un modus scribendi che ha molte affinità con l’istituto della bestemmia. Intendo la bestemmia come sistema retorico, come voce di un autore che punti il dito verso Dio e gli dica «Io non sono d’accordo. Io ti sfido». Può darsi che un simile atteggiamento letterario abbia dato fastidio, negli anni, a qualche lettore, eppure la sua efficacia è innegabile, così come è evidente che al fondo, alla radice, il problema suscitato sia dei più seri. Nei libri successivi, da La festa del Ringraziamento (1972) a Da quaresime lontane (2006), cambiano i temi e le ambientazioni ma il “modulo” rodato non subisce che lievi ritocchi. Si assiste semmai al frammentarsi sempre più aspro della sintassi, all’infittirsi di citazioni e rimandi, insomma al venir meno della tensione narrativa in favore del discorso sociologico e culturale. Di qui la fama di scrittore difficile, non per tutti i palati. Se è vero però che il metodo è imposto dall’oggetto, l’unica via è tornare a leggere Orelli con gli strumenti che la sua prosa richiede: il bisturi, il dizionario, l’occhio indagatore e colto di chi abbia molto tempo a disposizione e molte letture alle spalle.

venerdì 6 aprile 2012

Giovanni Pascoli, lode a un poeta epico (6 aprile 1912)



«Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l’attenzione e l’ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male» (Il fanciullino, XX).
Nel giorno del centenario (morì a Bologna il 6 aprile 1912) un invito a rileggere Giovanni Pascoli senza Giovanni Pascoli, o meglio senza il Pascoli che ci hanno raccontato a scuola e che ancora si incontra (psicanalizzato, frammentato, ridotto a un fantoccio) in molta produzione critica contemporanea. Si rilegga Myricae senza pause, tutto d’un fiato, per apprezzarne continuità e variatio, con l’orecchio della mente proteso alla più antica tradizione epica, omerica e virgiliana. Si rileggano i Poemetti e i Canti di Castelvecchio per coglierne la tensione linguistica spregiudicata e audacissima, precorritrice di tanto Novecento in poesia come in prosa.
Soprattutto, però, si rileggano i Poemi conviviali e le Canzoni di Re Enzio, libri apparen-temente più aridi e letterari, eppure così pieni di visione, di fiducia nel potere demiurgico della parola poetica, di enfatico e controllato calore verbale. In questi omaggi al mondo greco-latino e medioevale, filtrati da letture storiche e letterarie, Pascoli mostra il suo vero volto di poeta: un volto epico, narrativo, ambizioso, classico nella compostezza del ritmo e dello stile ma moderno nella libertà di selezione di temi e linguaggi; un volto non molto diverso da quello di Myricae o Castelvecchio, e però più delineato di quello, più fermo nei lineamenti e nell’esposizione della propria volontà e proprio per questo meno travisabile o psicanalizzabile (di qui il sostanziale silenzio su questi libri nelle aule scolastiche).

lunedì 16 gennaio 2012

Gianfranco Contini nel centenario della nascita (4 gennaio 1912)


Di fronte ai nati nel 1912 bisogna chinare il capo in segno di riconoscenza: da Amado a Pollock, da Caproni a Cheever, passando per Ionesco, Morselli, Congdon, Doisneau, Einaudi, Frye... In una tale messe di anniversari è passato in sordina il ricordo di Gianfranco Contini. Nato a Domodossola il 4 gennaio, Contini ha rappresentato per l’Italia un’accelerazione improvvisa e un punto-di-non-ritorno in almeno tre ambiti della ricerca: filologia, critica stilistica e dialettologia. Con precoce maturità seppe mettere a frutto quanto aveva appreso nelle Università di Pavia e Torino, senza dimenticare una proficua parentesi parigina alla scuola di Joseph Bédier. Il suo nome si lega inoltre alla cattedra di filologia romanza dell’Università di Friborgo, dove fu docente dal 1939 al 1952. Dopo vari tentativi, riuscì infine a rientrare in Italia, dove concluse una carriera brillante sempre contraddistinta da generosità e rigore.
Chi cerchi informazioni sulla sua opera troverà facilmente dove documentarsi; meno noti sono invece gli aspetti che esulano dalla sua attività intellettuale. Chi era, in altre parole, l’uomo Gianfranco Contini? Una via, silenziosa e affascinante, sono le fotografie, di cui anticipiamo alcuni campioni inediti quale saggio di un lavoro che potrebbe diventare un libro. Se è vero che Contini amava gli album dedicati agli scrittori – ebbe parole di elogio per il Pessoa della Lancastre – è da credere che non gli dispiacerà troppo questa intrusione nella sua vita personale. Eccolo dunque adolescente oppure, con i celebri baffi, sulla tessera del Comitato di Liberazione Nazionale; o ancora con i figli Riccardo e Roberto a passeggio per le strade di Maiano. L’immagine che ne restituisce la più vera essenza è però la prima, dove seduto sull’erba accanto a uno dei figli guarda lontano con l’ausilio di un cannocchiale: emblema di una vita spesa ad osservare, ad accertare i dati più minuziosi e sensibili, con un gusto per la scoperta e per l’avventura intellettuale.