mercoledì 30 luglio 2014

L'ultimo Orelli sotto il nome di Robert Walser


Giorgio Orelli aveva un bel dirci, con la dolce insistenza dei repetita iuvant, che letteratura deriva da «lettera» e che perciò l’attenzione verbale (l’auscultazione, l’accertamento) è un passaggio imprescindibile di ogni buona critica letteraria. Verità è che, nonostante l’amicizia e la fiducia che sempre si dà ad un grande maestro, gli abbiamo creduto in pochi, e nessuno probabilmente con l’energia e la dedizione che si sarebbe aspettato da noi, frenati da obiezioni personali oltre che tipiche del nostro tempo, lontano dai primi entusiasmi critici per forma e struttura. Parlo per me: il principale ostacolo ad una discesa così generosa nel tecnicismo, dentro le lettere stesse di cui si compone la migliore poesia (fino a riconoscere un valore non solo estetico ma semantico agli anagrammi, ai palindromi, alle geometrie più estreme di suono e senso), è il sospetto che il formalismo sia refrattario alla vita, che una lettura ravvicinata delle lettere – pur corretta, pur brillante – sconfini giocoforza in un’arida analisi di laboratorio.
Che bello ritrovarci oggi smentiti, proprio in questa obiezione, da un volumetto postumo curato da Yari Bernasconi e pubblicato dalle Edizioni Casagrande. Al centro, ça va sans dire, ancora le lettere: tutte (o quasi), dalla A alla Z, come si conviene ad un vero abbecedario, con la vita che si insinua tra le pagine in forza di una formula rigida ed elastica al tempo stesso, dove Orelli può dilungarsi in gustosi ricordi personali senza rinunciare agli accertamenti verbali cui sempre inclinava il suo prodigioso orecchio. Molti, specie i più anziani, vi troveranno aneddoti che gli abbiamo sentito narrare a voce più e più volte, sempre uguali eppure sempre diversi, finalmente cristallizzati in pochi paragrafi di pregevole fattura. Non mancano i suoi maestri (diretti ed indiretti, da Contini ad Anceschi a Roman Jakobson) e nemmeno gli autori a lui più cari (Dante, Goethe, Pascoli e l’annosa questione attorno al Fiore).
Chi confronti però la prima versione dell’Abbecedario, apparsa sulla rivista «Viceversa» nel maggio del 2011 per il novantesimo compleanno, non potrà fare a meno di notare uno scarto, direi quasi un balzo in avanti, nelle aggiunte di questa nuova edizione, cui il poeta lavorava nelle ultime settimane di vita e che ne è divenuta quasi un piccolo testamento. All’appello mancava ad esempio, nel 2011, una voce come ARCHITETTURA: «Io la penso come Robert Walser. In una sua pagina sull’architettura dice che va bene quello che fanno certi architetti, anche famosi, trovando forme nuove; ma bisognerebbe anzitutto appagare le esigenze dei più poveri. E costruire delle case per i più poveri, che sono milioni e milioni. Questa è l’idea dell’architettura che mi commuove. La casa giusta, adatta ai poveri, chi gliela costruisce? Anche un grande architetto può farlo. Non dev’essere una catapecchia» (p. 16).
Sotto il nome di Robert Walser, come dire nel segno di un’esigenza forte di umiltà e giustizia (la «casa giusta» rimanda inevitabilmente ad un mondo “giusto”, ad una morte “giusta”, ad una poesia “giusta”), possono ben iscriversi queste nuove pagine di Orelli, che al prosatore svizzero-berlinese dedica l’ultimo capitolo: «Io sono walseriano per la pelle. [...] Il pregio fondamentale di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. [...] Ottenere molto con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del poeta... E Walser ne è maestro». Con la disponibilità propria della vecchiaia, Orelli si china in altre pagine sulla sua infanzia, sugli anni al Collegio Papio di Ascona e sull’antica passione per la chitarra e per il canto. Attendiamo dunque con ansia di conoscere le poesie dell’Orlo della vita, nelle quali ritornano, all’altro estremo della parabola, gli stessi temi e le medesime intonazioni. Il quadro, a quel punto, sarà completo.

lunedì 7 luglio 2014

Il primo "cretino" fu Mozart. Risposta risentita a Paolo Isotta




Da tempo leggo le cronache e i commenti musicali di Paolo Isotta sul «Corriere della Sera», apprezzandone la competenza, lo stile e il coraggio. Capita purtroppo anche ad un grande giornalista, scaldandosi al fuoco della propria fama e delle proprie granitiche convinzioni, di passare clamorosamente il segno. Presentando la nuova stagione lirica, sinfonica e di balletto dell'opera di Roma (sul «Corriere della Sera» del 5 luglio 2014 a pagina 51), in un breve commento nel quale loda giustamente l'eccellente lavoro speso da Riccardo Muti in questi anni, Isotta si concede di dare del "cretino" a chiunque si serve ancora del nome Amadeus in luogo del più ufficiale Gottlieb, con il quale Mozart fu registrato all'anagrafe e chiamato, con Wolfgang, dai suoi contemporanei. Ora, si sarebbe potuto cogliere l'occasione per ricordare che «Ama-deus» è traduzione latina di «Gott-lieb», e che fu lo stesso Mozart a servirsene per primo, con tutta l'autoironia che contraddistingueva la sua persona, in alcuni scambi epistolari. Si sarebbe potuto dire che il mito Amadeus, legato a questa forma del nome, è postumo al compositore, coniato e favorito dai primi biografi. Si sarebbe insomma potuto fare un breve quanto utile discorso culturale. Invece, chissà perché, Isotta ha propeso per l'insulto. Se tanto mi dà tanto, meglio sentirsi cretino con Mozart che colto con Paolo Isotta. Viva Amadeus, viva la buona musica.