Giorgio Orelli
aveva un bel dirci, con la dolce insistenza dei repetita iuvant, che letteratura deriva da «lettera» e che perciò
l’attenzione verbale (l’auscultazione, l’accertamento) è un passaggio
imprescindibile di ogni buona critica letteraria. Verità è che, nonostante
l’amicizia e la fiducia che sempre si dà ad un grande maestro, gli abbiamo
creduto in pochi, e nessuno probabilmente con l’energia e la dedizione che si
sarebbe aspettato da noi, frenati da obiezioni personali oltre che tipiche del
nostro tempo, lontano dai primi entusiasmi critici per forma e struttura. Parlo
per me: il principale ostacolo ad una discesa così generosa nel tecnicismo,
dentro le lettere stesse di cui si compone la migliore poesia (fino a
riconoscere un valore non solo estetico ma semantico agli anagrammi, ai
palindromi, alle geometrie più estreme di suono e senso), è il sospetto che il
formalismo sia refrattario alla vita, che una lettura ravvicinata delle lettere
– pur corretta, pur brillante – sconfini giocoforza in un’arida analisi di
laboratorio.
Che bello
ritrovarci oggi smentiti, proprio in questa obiezione, da un volumetto postumo
curato da Yari Bernasconi e pubblicato dalle Edizioni Casagrande. Al centro, ça va sans dire, ancora le lettere:
tutte (o quasi), dalla A alla Z, come si conviene ad un vero abbecedario, con
la vita che si insinua tra le pagine in forza di una formula rigida ed elastica
al tempo stesso, dove Orelli può dilungarsi in gustosi ricordi personali senza
rinunciare agli accertamenti verbali cui sempre inclinava il suo prodigioso
orecchio. Molti, specie i più anziani, vi troveranno aneddoti che gli abbiamo
sentito narrare a voce più e più volte, sempre uguali eppure sempre diversi,
finalmente cristallizzati in pochi paragrafi di pregevole fattura. Non mancano
i suoi maestri (diretti ed indiretti, da Contini ad Anceschi a Roman Jakobson)
e nemmeno gli autori a lui più cari (Dante, Goethe, Pascoli e l’annosa questione
attorno al Fiore).
Chi confronti
però la prima versione dell’Abbecedario,
apparsa sulla rivista «Viceversa» nel maggio del 2011 per il novantesimo
compleanno, non potrà fare a meno di notare uno scarto, direi quasi un balzo in
avanti, nelle aggiunte di questa nuova edizione, cui il poeta lavorava nelle
ultime settimane di vita e che ne è divenuta quasi un piccolo testamento.
All’appello mancava ad esempio, nel 2011, una voce come ARCHITETTURA: «Io la
penso come Robert Walser. In una sua pagina sull’architettura dice che va bene
quello che fanno certi architetti, anche famosi, trovando forme nuove; ma
bisognerebbe anzitutto appagare le esigenze dei più poveri. E costruire delle
case per i più poveri, che sono milioni e milioni. Questa è l’idea
dell’architettura che mi commuove. La casa giusta, adatta ai poveri, chi gliela
costruisce? Anche un grande architetto può farlo. Non dev’essere una
catapecchia» (p. 16).
Sotto il nome
di Robert Walser, come dire nel segno di un’esigenza forte di umiltà e
giustizia (la «casa giusta» rimanda inevitabilmente ad un mondo “giusto”, ad
una morte “giusta”, ad una poesia “giusta”), possono ben iscriversi queste
nuove pagine di Orelli, che al prosatore svizzero-berlinese dedica l’ultimo
capitolo: «Io sono walseriano per la pelle. [...] Il pregio fondamentale di
Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. [...] Ottenere
molto con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del
poeta... E Walser ne è maestro». Con la disponibilità propria della vecchiaia,
Orelli si china in altre pagine sulla sua infanzia, sugli anni al Collegio
Papio di Ascona e sull’antica passione per la chitarra e per il canto.
Attendiamo dunque con ansia di conoscere le poesie dell’Orlo della vita, nelle quali ritornano, all’altro estremo della
parabola, gli stessi temi e le medesime intonazioni. Il quadro, a quel punto,
sarà completo.