venerdì 25 febbraio 2011

Cormac McCarthy - L'ultimo inedito (in italiano)


Le imperscrutabili leggi del mercato editoriale, unite forse a notevoli difficoltà di traduzione, hanno fatto sì che uno dei più importanti romanzi di Cormac McCarthy, Suttree, vedesse la luce in Italia (Einaudi 2009) solamente vent’anni dopo la sua pubblicazione americana. A questo punto era quasi inevitabile, viste le dimensioni assunte in tempi recenti dal fenomeno McCarthy, sospinto anche dall’industria cinematografica (No country for old men, The road). I meriti, comunque, sono tutti dello scrittore, tra i massimi del nostro tempo e forse di ogni tempo, come testimonia anche l’ultimo testo (The stonemason. A play in five acts, 1994) non ancora tradotto in italiano. Lo scalpellino del titolo è Ben Telfair, un uomo di colore che, fra un dialogo e l’altro, fa di tutto per tenere compatta la propria famiglia – il nonno Papaw, il padre Big Ben e il nipote “Soldier” – nonostante l’evidente frantumazione dovuta a motivi sociali e generazionali. La saggezza di Papaw, colui che crede nella sacralità del lavoro quotidiano, è l’unico appiglio offerto a Ben nella sua ricerca di un vero interlocutore cui porre le grandi domande sulla vita. Cormac McCarthy è, come sempre, essenzialmente religioso, e le sue parole cadono sulla pagina con la consistenza di pietre, mai gratuite, mai vuote. Non siamo lontani dall’ultimo suo testo in ordine di tempo, Sunset limited, con il quale The stonemason condivide non solo la scelta del genere teatrale, ma soprattutto il piglio deciso nell’affrontare temi cruciali come la libertà individuale e il senso del destino. Un simile testo si vorrebbe vedere anche nei nostri teatri, non fosse che la grande quantità di didascalie e di descrizioni di scena, a tratti maggioritarie rispetto ai dialoghi, ne renderebbero monca qualunque realizzazione. McCarthy è un narratore, non un autore di teatro, e come tale ha l’ansia di dire tutto, di “far vedere” ogni cosa, lasciando poco spazio ad un eventuale regista. Poco male, ci resta il piacere della lettura.

mercoledì 16 febbraio 2011

Seamus Heaney - "District e Circle" (Mondadori)

I paesi che si riconoscono nella letteratura di lingua inglese hanno assistito negli ultimi decenni ad un’evidente spartizione di ruoli: all’America il romanzo (con significative eccezioni: Ian McEwan, Amitav Gosh), la poesia al resto dell’impero, soprattutto nelle pendici più estreme. Dall’isola caraibica di St. Lucia (Derek Walcott) al Queensland australiano di Les Murray, fino alla campagna nordirlandese di Seamus Heaney, il poeta più noto e venduto al mondo, raro caso di Nobel più che meritato (anche Walcott l’ha avuto, e Murray?). In traduzione italiana Heaney si legge nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori, che ha recentemente pubblicato la sua penultima raccolta, District e Circle, a cura di Luca Guerneri.

Una cosa stupisce sempre nella poesia di Heaney (si pensi anche al precedente Electric light): la totale libertà di scelta degli argomenti, così che la dimensione personale, minima, interiore, prevale sempre sul resto, diventando per questo, quanto più nasce privata, un vero messaggio universale; una poesia, si potrebbe dire, in assenza del lettore, perché il poeta è tanto libero e sicuro di sé da accogliere sulla pagina tutto ciò che vuole, senza limiti di stile o di genere, quasi senza pudore. Heaney, oggi 71enne, già detentore della cattedra di poesia ad Oxford e Harvard, se lo può senz’altro permettere, ma il bello è che lo ha sempre fatto, ed è questa la sua forza. Commuovono in District e Circle le poesie per gli amici scomparsi, per poeti del passato come Seferis (pp. 47-49), Ted Hughes (p. 99) o Czeslaw Milosz (p. 101) affiancati ad uno sconosciuto reduce noto solo all’autore (A Mick Joyce in cielo, pp. 19-25). La realtà trova spazio sulla pagina soltanto dopo essere diventata materia epica (Anything can happen, pp. 30-31), perché quel che conta è l’elevazione (stilistica, religiosa) che questa comporta: non il dato sensibile o il dettaglio in sé considerato, bensì l’occhio di chi vede, lo sguardo amorevole e responsabilizzante dello scrittore.



                                         POPPA

                                                                     in memoria di Ted Hughes

                                                   «E come fu» gli chiesi 
                                                   «incontrare Eliot?»
                                                                                 «Quando ti guardava»
                                                   rispose «era come stare sul molo
                                                   e osservare la prua del Queen Mary
                                                   venirti incontro, molto lentamente».

                                                                                  Ora mi sembra
                                                   di essere io in piedi sul pontile a osservare
                                                   lui che osserva me mentre rema verso il largo
                                                   e una poppa verticale di legno
                                                   arranca e brilla e beccheggia
                                                   senza quasi abbrivio.




martedì 8 febbraio 2011

"Freedom" di Jonathan Franzen

La copertina dell'edizione inglese
Di una cosa dobbiamo essere grati a Jonathan Franzen: di non essersi fatto vivo per nove anni, di aver scritto con molta calma il suo nuovo romanzo dando spazio a quelle necessità che sole dovrebbero nutrire la scrittura. Si è preso del tempo, e si vede, così che Freedom – presto in traduzione italiana da Einaudi – può dirsi figlio del medesimo autore delle Correzioni. Non è cosa da poco.
Ecco allora un’altra famiglia, forse meno memorabile dei Lambert ma altrettanto tesa, caotica, accidiosa, più giovane per età e più moderna di tratti, ugualmente scontenta e scontrosa, il cui nome di ascendenze nordiche (Berglund) sembra alludere ad una dimensione internazionale, sebbene non manchino i provocatori stereotipi attorno ai quali Franzen (degno erede di Roth e della sua Pastorale americana) aveva costruito l’ossatura del precedente romanzo. Persino i personaggi – in questo caso un merito più che un difetto – sembrano gli stessi delle Correzioni, tanto Richard Katz richiama la desolazione di Chip Lambert o le sbandate di Denise riflettono la difficile esistenza di Patty Berglund, l’eterna ragazzina di Freedom. L’eccesso è lì, dietro l’angolo, corteggiato a lungo ma mai – per il bene del lettoreveramente afferrato: questa è la qualità prima di Franzen, i cui personaggi si osservano (in proprio e a vicenda) come dall’alto, in un autoscandaglio lucidissimo segnato da viva intelligenza.
Gusto e misura sono doni dati a pochi, in narrativa, e un niente sarebbe bastato all’autore per rovinare una scena, invece, equilibrata e avvincente come il dialogo del giovane Berglund con la bellissima sorella del suo compagno di scuola, in un silenzioso appartamento di New York, una mattina come tante altre; ma Franzen non è Tom Wolfe, e anche quando parla di college sa tenere lontane le banalizzazioni del romanzo di genere (I am Charlotte Simmons). La posta in gioco, d’altronde, è evidente sin dal titolo, segno che l’autore non è disposto a puntare al ribasso, com’è di un narratore vero.