martedì 20 dicembre 2011

Dizionario imperiale (ristampa anastatica)


Si deve a Carlo Ossola la prima intuizione che ha portato alla ristampa anastatica del Dizionario imperiale, opera quadrilingue (italiano, francese, tedesco, latino) di cui si conserva una rara copia nell’Archivio storico della Città di Lugano. Stampato per la prima volta a Francoforte nel 1700, il volume ebbe tale fortuna da divenire quasi sinonimo di dizionario plurilingue. Se lo si ripropone oggi e proprio a Lugano, è per più ragioni. Innanzitutto, va da sé, conservativo-documentarie; ma non solo. Nel recente dibattito attorno all’importanza dell’italiano nel contesto linguistico svizzero, una ristampa come questa ha il merito di ricordare all’opinione pubblica la dimensione ideale di ogni sforzo culturale seriamente inteso, il potenziale di significato insito in una pubblicazione che non sottostà alle aride leggi del mercato editoriale. Chi acquisterebbe, in tempi di crisi, un volume costoso con la certezza di leggerne, se va bene, un cinque percento? Eppure è esattamente quanto accade con i dizionari, libri la cui vita è per lo più in absentia, fermi su uno scaffale a rappresentare in silenzio il patrimonio linguistico di una cultura e di una nazione (e pronti a fornire risposte soltanto se interrogati da intelligenze curiose). Un dizionario, in altre parole, vale tanto aperto quanto chiuso. Non andrebbe mai dimenticata infatti l’intuizione saussuriana secondo cui una lingua è al contempo attuazione pratica (parole) e sistema linguistico (langue). Soltanto tenendo nella giusta considerazione entrambi questi aspetti è possibile leggere un fenomeno complesso come quello di una lingua di minoranza in una nazione plurilingue come la Svizzera. I numeri diranno forse che l’italiano (in quanto parole) è oramai prossimo ad una lingua regionale, ma la difesa dell’italiano in quanto langue (in tutto il suo potenziale semantico e culturale) necessita di criteri che non siano meramente statistici o matematici, per recuperarne – come in un dizionario – la dimensione ideale.

lunedì 14 novembre 2011

Alessandro Stellino - Incendi (Il Maestrale)

Alessandro Stellino riesce in un’impresa impossibile: rinnovare la lezione di Salinger dando finalmente nuova linfa a un filone tra i più usurati della narrativa contemporanea post Giovane Holden (1951). Lo schema è simile a quello di molti romanzi pubblicati negli ultimi anni: una voce in prima persona, giovanile, caratterizzata linguisticamente, una finta-confessione dai tratti genuini e dall’andamento scorrevole, con un’aria sospesa di mistero e di non-detto. Che cosa rende dunque questo libro diverso da decine di altri?
A prima vista la scelta per una voce femminile (Perla) divisa tra ingenuità e malizia, non troppo infantile e non ancora adulta, per di più sarda, con tutte le implicazioni di lingua e di stile che questo comporta: «Se c’è un insetto che proprio non sopporto quello è la cavalletta. Al primo posto le cavallette, al secondo i buvoni. C’è a chi gli fanno più schifo i buvoni ma a me no. Prima cosa, i buvoni esistono solo d’estate e anche se sono dei babbuzzi un bé brutti non se ne vede uno prima che è tramontato il sole…». Il romanzo di Stellino è tanto più sorprendente se si pensa che da questo incipit fino alla conclusione del racconto di Perla (p. 85), l’arcata discorsiva non fa una piega, fingendo in ogni più piccolo dettaglio la parlata della ragazzina sarda, al punto che l’autore (cosa rarissima) letteralmente scompare dietro il suo personaggio. Di più, al sovrano controllo stilistico contribuisce l’accostamento di una seconda parte (finto-giornalistica) che svela senza dare loro troppa importanza alcuni misteri che nella prima erano stati soltanto adombrati. Ma la verità dei personaggi non è nello svelamento, bensì negli occhi (e nella lingua) di Perla che sono il cuore stesso del romanzo.
Copertina, titolo e sottotitolo, pur se di pregevole fattura, rischiano di trarre in inganno: simili libri si vorrebbero stampati in bianco e nero, con sobrietà, per costringere il lettore ad una auscultazione diligente e silenziosa del testo. Non è un giallo.

lunedì 19 settembre 2011

Giorgio Orelli, le carte di una vita (esposizione)

«È un privilegio che in genere viene concesso soltanto ai morti». Così scherzava con noi Giorgio Orelli a Mendrisio, poco dopo la presentazione della mostra che lo vede protagonista nei locali asimmetrici di Casa Croci. «Qualcuno deve aver pensato che, in fondo, è un po’ come se fossi già di là…». Tutt’altra impressione si ha invece nel sentirlo parlare, contornato di amici, parenti, poeti ventenni e vecchi professori, mentre racconta degli anni giovanili in Leventina o della distanza «di un’ora e mezza tra Prato e il Tremorgio» percorsa in un lampo dai cani da caccia all’inseguimento delle lepri.


Degna conclusione dei festeggiamenti per i novant’anni iniziati in maggio a Bellinzona (ma il 29 settembre si annuncia già una tavola rotonda sul tema), l’esposizione curata da Pietro De Marchi e Simone Soldini ha il merito di portare Orelli in un altro angolo del Ticino, lontano dalla sua città e dalle sue montagne, per una celebrazione corale che è dell’intera Svizzera italiana. «Mia donna venne a me…» ha ricordato Orelli, omaggiando con i versi danteschi di Cacciaguida (Paradiso XV) le origini momò dell’amata Mimma, prima di concedersi nella lettura e commento di alcuni testi celebri – da Sera a Bedretto a L’ora esatta – con grande gioia del pubblico, al solito numerosissimo. Forse per nessuno come per il poeta di Airolo si può infatti parlare di patrimonio culturale comune, uno scrittore internazionale di casa nostra che mai prima d’ora aveva aperto con tanta generosità il suo archivio personale (del quale è notoriamente geloso): manoscritti, abbozzi, rari volumi esauriti da tempo, corrispondenze con amici poeti… Non manca nulla per soddisfare la curiosità degli appassionati e dei lettori che lo seguono fedelmente da decenni, con tanto di macchina da scrivere Olivetti modello Lettera 22 dalla quale esce, quasi fosse appena composta, la poesia dedicata al compianto amico che gliel’aveva venduta (la “X”, per la cronaca, è veramente bianchissima, “E” e “O” quasi sparite…).


In memoria


Tornavo per farmi cambiare
il nastro ormai privo d’inchiostro
della mia vecchia Olivetti, e allungando,
come faccio, passando in bicicletta
davanti al tuo negozio, l’occhio
di là dai vetri, ho visto
che non c’era nessuno (forse
Lina è di sopra con Dora)
e ho visto CHIUSO PER LUTTO (forse
è morto Lino): da un po’
non ti vedevo, non mi contavi storielle.
Volevo dirti che mi sono accorto
solo adesso della totale scomparsa,
a sinistra, di E, di O a destra.
Il tasto è nero ma sempre lucente,
se batto (eternamente con due dita) continuo
a vederle, bianchissime, intatte
o quasi, come, là in basso, la X.

(da Il collo dell’anitra, 2001)

martedì 31 maggio 2011

Vittorio Sereni - Occasioni di lettura (Aragno Editore)

Vittorio Sereni (1913-1983)
Un testo si definisce anche per l’uso cui è deputato. Si potrebbe partire dal ricevente (il lettore) per derivarne la categoria: dal grado minimo della scrittura diaristica (scrittore e lettore che coincidono) al grado massimo del bestseller, del testo sacro, della scrittura canonizzata e nota a tutti. Come giudicare allora i testi nati esclu-sivamente per uso interno, rivolti a pochissimi lettori e sempre quelli, come i giudizi editoriali? Sono scritti di lavoro, ipotesi, riflessioni personali, un discorso semi-pubblico che si divulga solo in casi molto rari, in genere quando l’autore dei giudizi è anch’egli uno scrittore molto noto. È il caso, sicuramente, di Vittorio Sereni. Del poeta di Luino si conoscevano i giudizi espressi per la Mondadori a partire dal 1958, ma non ancora quelli stesi negli anni precedenti per altre case editrici, su di un arco che va dal 1948 al 1958. Raccolte da Francesca D’Alessandro per i tipi di Nino Aragno Editore, queste “occasioni di lettura” sono una piacevole scoperta, un viaggio in una piccola galassia di minori (soprattutto poeti) tra cui spicca qualche grande nome (Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Ezra Pound) accanto ad altri di caratura intermedia (Bartolo Cattafi, Maria Luisa Spaziani, Giovanni Arpino), tutti oggetto di pagine accurate, scritte con stile impeccabile. Per gli amanti delle profezie, il gioco sta nel verificare dove il giudizio di Sereni, comunque attento alle ragioni del mercato editoriale oltre che letterarie in senso stretto, ha saputo precorrere i tempi scovando con competenza una voce sicura (ma non sempre, si vedrà, il suo parere fu decisivo nell’ottica di una pubblicazione del volume, o del suo abbandono). Quel che conta, alla fine, è quanto del recensore traspare da queste schede di lettura, sempre ugualmente serio – perché privo di pregiudizi – nell’avvicinarsi alle voci altrui, sempre pronto a cogliere la novità stilistica o la profondità umana negli scrittori suoi contemporanei.

martedì 26 aprile 2011

Les Murray - "Killing the black dog"


I lettori di lingua italiana conoscono Les Murray, poeta australiano, intellettuale-contadino al di fuori di qualunque schema, essenzialmente per due opere (due capolavori, se la parola non fosse abusata): la raccolta antologica Un arcobaleno perfettamente normale (Adelphi 2004, traduzione di G. Prampolini) e il poema epico Freddy Nettuno (Giano 2002, a cura di M. Morini), sul quale ha scritto cose molto intelligenti Christophe Martella nel IV fascicolo 2008 della rivista “Cenobio”. In seguito è uscito il volume di saggi Lettere dalla Beozia (Giano 2005), che ha avuto il merito di mostrarci Murray in tutta la sua statura di uomo colto e raffinato, acuto, autoironico, in forte contrasto con l’immagine un po’ burbera e trasandata.
Molto resta però ancora da tradurre, ad iniziare da Killing the black dog, una sconvolgente testimonianza della depressione clinica che da anni assilla il poeta. Il “cane nero” che fu anche di Winston Churchill, metafora azzeccata che in Murray ha trovato nuova vita, si aggira per tutte le raccolte marchiando indelebilmente alcune composizioni, qui raccolte a mo’ di antologia di una depressione mai del tutto esorcizzata. Ci vuole coraggio per aprirsi così schiettamente al lettore, per metterglisi davanti con il cuore in mano.
Di fronte ad un simile libro ci si chiede dove passi il confine tra una scrittura terapeutica e una testimonianza che aspiri a farsi universale, tra un egocentrico parlar di sé e il necessario (perché inevitabile) personalismo sotteso ad ogni vera comunicazione artistica, che non può né deve mai essere “neutra”. Resta un’ipotesi, ma leggendo Murray si capisce che soltanto il riferimento alle più alte categorie del pensiero occidentale (il perdono, il senso del destino, il bisogno di felicità) tengono il parlar-di-sé saldamente al di sopra di quel limite. Alla fine Killing the black dog non è nient’altro che questo: una cartina tornasole contro l’egocentrismo, una scuola di umiltà verso una scrittura veramente universale.

venerdì 25 marzo 2011

Matteo Munaretto - "Arde nel verde" (Interlinea)

L’attacco di Matteo Munaretto, con voce non sua ma subito fatta propria, è dei più intelligenti e provocatori: «habes unde subleveris in admirationem» (San Bonaventura). C’è di che restare stupiti di fronte al Creato, questo ci ricorda – con il teologo francescano – il giovane poeta lombardo, qui al suo esordio per Interlinea con prefazione di Fernando Bandini. Uno stupore che eleva, posto che lo sguardo riesca a restare puro e la lingua adatta ai contenuti (alla loro “altezza”). Già, ma che lingua? Munaretto è coraggioso di un coraggio che non pagherà, visti i tempi e non teme di ispirarsi a Dante («nelle sue tenere la mia s’immilla / vite che esaudiscono / l’esistere in lavacro di chiarore») e nel Novecento soprattutto a Rebora, Luzi, Saba, magari a Betocchi. Autori cattolici, autori universali, ma per un giovane poeta una scelta tutt’altro che scontata (un altro a cui bisognerà prestare attenzione, simile per iniziali, è Massimiliano Mandorlo).
Il titolo della raccolta, a prima vista soltanto un ovvio gioco fonosimbolico (aRDe nel veRDe), inizia invece a vibrare non appena si legga la poesia omonima: «Il blu… / e il giallo… / si sono amati. È il loro amore / che arde nel verde?». Munaretto ha un unico tema, ma è tra i pochi che contengano tutto (un tema punto-di-partenza, un tema ogni-cosa-che-esiste), così che la sua poesia, dolce e musicale, molto ben concatenata a se stessa, diviene sovente materia filosofica. E non è un caso se il suo principale interlocutore, senza sbandierarlo troppo, è il Montale del male di vivere e dei dolorosi cataloghi di immagini negative: «il rivo strozzato che gorgoglia, /… l’incartocciarsi della foglia / riarsa,… il cavallo stramazzato» (Ossi di seppia). Così gli risponde, quasi per le rime, il giovane Munaretto: «Non ebbi che la timida / delle cose a me care meraviglia, / la foglia appena nata, un poco d’edera / sui muri e in mezzo all’orto la cicoria. / In questa povertà si è sporta all’anima / antica iridescente la bellezza».

martedì 8 marzo 2011

Pascoli, un poeta dell'Unità d'Italia ("Myricae")

Giovanni Pascoli (1855-1912)
Quindici scrittori che hanno fatto l’Unità d’Italia, una proposta della Fiera del libro di Torino per il 150esimo. Se ne è già discusso molto, soprattutto degli esclusi, ma pochi si sono meravigliati di una presenza insolita. Non parlo di Saviano, l’unica soubrette-uomo che conosca, sospinto da un’ondata benevola al punto da infilarsi anche lì, dopo Gadda e Montale. Penso a Myricae, opera prima (e continuamente ritoccata) di Giovanni Pascoli, scelta per occupare una casella la poesia del secondo Ottocento che avrebbe potuto accogliere altri nomi, forse più adatti a una celebrazione risorgimentale (Carducci, D’Annunzio). Rileggiamo dunque Myricae lanciando anzitempo la volata lunga che porta al centenario pascoliano (aprile 2012), con la consapevolezza che di questo testo si è scritto molto ma che molto resta ancora da dire.
Pascoli poeta della morte o innocente cantore degli idilli campestri: la scelta tra queste due opzioni sembra inevitabile (la critica, anche psicologica, si è equamente divisa in due). Perché invece non tenere aperte entrambe le ipotesi? Nel senso di una loro compresenza sulla pagina, dove il primo non esclude l’altro, perché il dolore e la gioia convivono, armoniosamente, nel cuore umano; questo suggerisce la sezione Pensieri, così come la chiusa della Prefazione d’autore (1894): «Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe essere di odio, e è d’amore». Vittorino Andreoli, in un libro che non merita se non una veloce scorsa (I segreti di casa Pascoli, BUR, Milano 2006), ricorda giustamente il lato tragico della vita del poeta: l’assassinio del padre e quel che ne seguì. Ciò che sorprende però, nella poesia che apre la raccolta (Il giorno dei morti), è l’insistenza con cui si chiede il perdono dell’assassino: «Perdona all’uomo, che non so».  L’ipotesi di una vendetta, anche soltanto su carta, non è nemmeno contemplata.

venerdì 25 febbraio 2011

Cormac McCarthy - L'ultimo inedito (in italiano)


Le imperscrutabili leggi del mercato editoriale, unite forse a notevoli difficoltà di traduzione, hanno fatto sì che uno dei più importanti romanzi di Cormac McCarthy, Suttree, vedesse la luce in Italia (Einaudi 2009) solamente vent’anni dopo la sua pubblicazione americana. A questo punto era quasi inevitabile, viste le dimensioni assunte in tempi recenti dal fenomeno McCarthy, sospinto anche dall’industria cinematografica (No country for old men, The road). I meriti, comunque, sono tutti dello scrittore, tra i massimi del nostro tempo e forse di ogni tempo, come testimonia anche l’ultimo testo (The stonemason. A play in five acts, 1994) non ancora tradotto in italiano. Lo scalpellino del titolo è Ben Telfair, un uomo di colore che, fra un dialogo e l’altro, fa di tutto per tenere compatta la propria famiglia – il nonno Papaw, il padre Big Ben e il nipote “Soldier” – nonostante l’evidente frantumazione dovuta a motivi sociali e generazionali. La saggezza di Papaw, colui che crede nella sacralità del lavoro quotidiano, è l’unico appiglio offerto a Ben nella sua ricerca di un vero interlocutore cui porre le grandi domande sulla vita. Cormac McCarthy è, come sempre, essenzialmente religioso, e le sue parole cadono sulla pagina con la consistenza di pietre, mai gratuite, mai vuote. Non siamo lontani dall’ultimo suo testo in ordine di tempo, Sunset limited, con il quale The stonemason condivide non solo la scelta del genere teatrale, ma soprattutto il piglio deciso nell’affrontare temi cruciali come la libertà individuale e il senso del destino. Un simile testo si vorrebbe vedere anche nei nostri teatri, non fosse che la grande quantità di didascalie e di descrizioni di scena, a tratti maggioritarie rispetto ai dialoghi, ne renderebbero monca qualunque realizzazione. McCarthy è un narratore, non un autore di teatro, e come tale ha l’ansia di dire tutto, di “far vedere” ogni cosa, lasciando poco spazio ad un eventuale regista. Poco male, ci resta il piacere della lettura.

mercoledì 16 febbraio 2011

Seamus Heaney - "District e Circle" (Mondadori)

I paesi che si riconoscono nella letteratura di lingua inglese hanno assistito negli ultimi decenni ad un’evidente spartizione di ruoli: all’America il romanzo (con significative eccezioni: Ian McEwan, Amitav Gosh), la poesia al resto dell’impero, soprattutto nelle pendici più estreme. Dall’isola caraibica di St. Lucia (Derek Walcott) al Queensland australiano di Les Murray, fino alla campagna nordirlandese di Seamus Heaney, il poeta più noto e venduto al mondo, raro caso di Nobel più che meritato (anche Walcott l’ha avuto, e Murray?). In traduzione italiana Heaney si legge nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori, che ha recentemente pubblicato la sua penultima raccolta, District e Circle, a cura di Luca Guerneri.

Una cosa stupisce sempre nella poesia di Heaney (si pensi anche al precedente Electric light): la totale libertà di scelta degli argomenti, così che la dimensione personale, minima, interiore, prevale sempre sul resto, diventando per questo, quanto più nasce privata, un vero messaggio universale; una poesia, si potrebbe dire, in assenza del lettore, perché il poeta è tanto libero e sicuro di sé da accogliere sulla pagina tutto ciò che vuole, senza limiti di stile o di genere, quasi senza pudore. Heaney, oggi 71enne, già detentore della cattedra di poesia ad Oxford e Harvard, se lo può senz’altro permettere, ma il bello è che lo ha sempre fatto, ed è questa la sua forza. Commuovono in District e Circle le poesie per gli amici scomparsi, per poeti del passato come Seferis (pp. 47-49), Ted Hughes (p. 99) o Czeslaw Milosz (p. 101) affiancati ad uno sconosciuto reduce noto solo all’autore (A Mick Joyce in cielo, pp. 19-25). La realtà trova spazio sulla pagina soltanto dopo essere diventata materia epica (Anything can happen, pp. 30-31), perché quel che conta è l’elevazione (stilistica, religiosa) che questa comporta: non il dato sensibile o il dettaglio in sé considerato, bensì l’occhio di chi vede, lo sguardo amorevole e responsabilizzante dello scrittore.



                                         POPPA

                                                                     in memoria di Ted Hughes

                                                   «E come fu» gli chiesi 
                                                   «incontrare Eliot?»
                                                                                 «Quando ti guardava»
                                                   rispose «era come stare sul molo
                                                   e osservare la prua del Queen Mary
                                                   venirti incontro, molto lentamente».

                                                                                  Ora mi sembra
                                                   di essere io in piedi sul pontile a osservare
                                                   lui che osserva me mentre rema verso il largo
                                                   e una poppa verticale di legno
                                                   arranca e brilla e beccheggia
                                                   senza quasi abbrivio.




martedì 8 febbraio 2011

"Freedom" di Jonathan Franzen

La copertina dell'edizione inglese
Di una cosa dobbiamo essere grati a Jonathan Franzen: di non essersi fatto vivo per nove anni, di aver scritto con molta calma il suo nuovo romanzo dando spazio a quelle necessità che sole dovrebbero nutrire la scrittura. Si è preso del tempo, e si vede, così che Freedom – presto in traduzione italiana da Einaudi – può dirsi figlio del medesimo autore delle Correzioni. Non è cosa da poco.
Ecco allora un’altra famiglia, forse meno memorabile dei Lambert ma altrettanto tesa, caotica, accidiosa, più giovane per età e più moderna di tratti, ugualmente scontenta e scontrosa, il cui nome di ascendenze nordiche (Berglund) sembra alludere ad una dimensione internazionale, sebbene non manchino i provocatori stereotipi attorno ai quali Franzen (degno erede di Roth e della sua Pastorale americana) aveva costruito l’ossatura del precedente romanzo. Persino i personaggi – in questo caso un merito più che un difetto – sembrano gli stessi delle Correzioni, tanto Richard Katz richiama la desolazione di Chip Lambert o le sbandate di Denise riflettono la difficile esistenza di Patty Berglund, l’eterna ragazzina di Freedom. L’eccesso è lì, dietro l’angolo, corteggiato a lungo ma mai – per il bene del lettoreveramente afferrato: questa è la qualità prima di Franzen, i cui personaggi si osservano (in proprio e a vicenda) come dall’alto, in un autoscandaglio lucidissimo segnato da viva intelligenza.
Gusto e misura sono doni dati a pochi, in narrativa, e un niente sarebbe bastato all’autore per rovinare una scena, invece, equilibrata e avvincente come il dialogo del giovane Berglund con la bellissima sorella del suo compagno di scuola, in un silenzioso appartamento di New York, una mattina come tante altre; ma Franzen non è Tom Wolfe, e anche quando parla di college sa tenere lontane le banalizzazioni del romanzo di genere (I am Charlotte Simmons). La posta in gioco, d’altronde, è evidente sin dal titolo, segno che l’autore non è disposto a puntare al ribasso, com’è di un narratore vero.

mercoledì 26 gennaio 2011

Dalla parte dell'editor (Carver, Einaudi, minimum fax)

Raymond Carver (1938-1988)
L’elezione di Raymond Carver ad autore-faro di Einaudi ha avuto come effetto la riapertura dell’affaireGordon Lish”. La storia è nota: editor stimatissimo e amico sincero dell’autore, Lish operò correzioni in misura massiccia prima che Carver diventasse uno dei più grandi scrittori di racconti del Novecento, appena una spanna dietro Hemingway e Flannery O’Connor.
Provate ad immaginare Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (nel senso della raccolta) senza Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (nel senso del titolo: l’originale era Principianti) e avrete un’idea della portata degli interventi di Lish. Provate invece a rileggere un capolavoro come Una cosa piccola ma buona (nel senso del racconto di 34 pagine) prima che intervenisse lo scempio de Il bagno (la nuova versione, ridotta del 78 % e decurtata di un commovente finale) e saranno palesi tutte le responsabilità di un troppo severo censore. Ma quand’anche gli interventi di Lish dovessero rivelarsi più “sbagliati” che “giusti”, non sarebbe corretto puntare il dito contro una categoria che ha fatto la fortuna di molti scrittori. Mettendoli per la prima volta di fronte a loro stessi, presentandosi con il dattiloscritto segnato di penna rossa pronti a discutere ogni minima parola prima di dare il via alle rotative. Gli editors sono i più importanti interlocutori di chi scrive per mestiere, di più, sono un antidoto al narcisismo, gli autentici garanti dei diritti dei lettori, il primo decisivo passo verso l’esportazione della democrazia nella turris eburnea degli scrittori di grido.
Gordon Lish era un grande editor che in alcuni casi prese, lo si ammetterà senza problemi, qualche evidente cantonata. Ma fece anche del bene all’amico Raymond. Perché il vero Carver, semplicemente, non esiste: veleggia tra l’edizione Einaudi e quella minimum fax e ogni lettore ha il diritto di costruirselo come più gli piace. Prendendo un pezzo qua e uno là, in barba alle edizioni filologicamente corrette e anche piuttosto noiose.

martedì 25 gennaio 2011

Due parole prima di cominciare

Boston (marzo 2006) © PM
Duemila battute – spazi inclusi – per illustrare i testi più disparati e lontani: poesie, romanzi, saggistica, carteggi, memorie di viaggio. Duemila battute. Poche per dire tutto, ma più che sufficienti per farsi una prima opinione, solida e condivisibile, attorno ad un libro di recente pubblicazione. Come avviene per i morsi: il primo non sazia mai, eppure porta con sé tutto il gusto del cibo che si sta iniziando ad assaporare. Perché, allora, “esercizi”? Perché la critica letteraria non è una scienza (questo ci ha insegnato Gianfranco Contini), semmai una disciplina, qualcosa che cresca con il crescere della persona in un imprevedibile intrecciarsi di fattori individuali. Per questo, quando è fatta bene, commuove. I paragrafi di questa rubrica saranno dunque (è inevitabile) immagine e specchio delle esperienze letterarie di chi scrive: delle mie opinioni e delle mie letture, senza troppe pretese di verità ma anche senza tanti timori reverenziali. Legga chi vuole e si confronti, ne trarremo senz’altro qualche cosa di buono. Duemila come gli anni nei quali siamo chiamati a vivere, con uno sguardo che ha iniziato a formarsi moltissimo tempo fa.

Pietro Montorfani