venerdì 25 marzo 2011

Matteo Munaretto - "Arde nel verde" (Interlinea)

L’attacco di Matteo Munaretto, con voce non sua ma subito fatta propria, è dei più intelligenti e provocatori: «habes unde subleveris in admirationem» (San Bonaventura). C’è di che restare stupiti di fronte al Creato, questo ci ricorda – con il teologo francescano – il giovane poeta lombardo, qui al suo esordio per Interlinea con prefazione di Fernando Bandini. Uno stupore che eleva, posto che lo sguardo riesca a restare puro e la lingua adatta ai contenuti (alla loro “altezza”). Già, ma che lingua? Munaretto è coraggioso di un coraggio che non pagherà, visti i tempi e non teme di ispirarsi a Dante («nelle sue tenere la mia s’immilla / vite che esaudiscono / l’esistere in lavacro di chiarore») e nel Novecento soprattutto a Rebora, Luzi, Saba, magari a Betocchi. Autori cattolici, autori universali, ma per un giovane poeta una scelta tutt’altro che scontata (un altro a cui bisognerà prestare attenzione, simile per iniziali, è Massimiliano Mandorlo).
Il titolo della raccolta, a prima vista soltanto un ovvio gioco fonosimbolico (aRDe nel veRDe), inizia invece a vibrare non appena si legga la poesia omonima: «Il blu… / e il giallo… / si sono amati. È il loro amore / che arde nel verde?». Munaretto ha un unico tema, ma è tra i pochi che contengano tutto (un tema punto-di-partenza, un tema ogni-cosa-che-esiste), così che la sua poesia, dolce e musicale, molto ben concatenata a se stessa, diviene sovente materia filosofica. E non è un caso se il suo principale interlocutore, senza sbandierarlo troppo, è il Montale del male di vivere e dei dolorosi cataloghi di immagini negative: «il rivo strozzato che gorgoglia, /… l’incartocciarsi della foglia / riarsa,… il cavallo stramazzato» (Ossi di seppia). Così gli risponde, quasi per le rime, il giovane Munaretto: «Non ebbi che la timida / delle cose a me care meraviglia, / la foglia appena nata, un poco d’edera / sui muri e in mezzo all’orto la cicoria. / In questa povertà si è sporta all’anima / antica iridescente la bellezza».

martedì 8 marzo 2011

Pascoli, un poeta dell'Unità d'Italia ("Myricae")

Giovanni Pascoli (1855-1912)
Quindici scrittori che hanno fatto l’Unità d’Italia, una proposta della Fiera del libro di Torino per il 150esimo. Se ne è già discusso molto, soprattutto degli esclusi, ma pochi si sono meravigliati di una presenza insolita. Non parlo di Saviano, l’unica soubrette-uomo che conosca, sospinto da un’ondata benevola al punto da infilarsi anche lì, dopo Gadda e Montale. Penso a Myricae, opera prima (e continuamente ritoccata) di Giovanni Pascoli, scelta per occupare una casella la poesia del secondo Ottocento che avrebbe potuto accogliere altri nomi, forse più adatti a una celebrazione risorgimentale (Carducci, D’Annunzio). Rileggiamo dunque Myricae lanciando anzitempo la volata lunga che porta al centenario pascoliano (aprile 2012), con la consapevolezza che di questo testo si è scritto molto ma che molto resta ancora da dire.
Pascoli poeta della morte o innocente cantore degli idilli campestri: la scelta tra queste due opzioni sembra inevitabile (la critica, anche psicologica, si è equamente divisa in due). Perché invece non tenere aperte entrambe le ipotesi? Nel senso di una loro compresenza sulla pagina, dove il primo non esclude l’altro, perché il dolore e la gioia convivono, armoniosamente, nel cuore umano; questo suggerisce la sezione Pensieri, così come la chiusa della Prefazione d’autore (1894): «Questa è la parola che dico ora con voce non ancor ben sicura e chiara, e che ripeterò meglio col tempo; le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe essere di odio, e è d’amore». Vittorino Andreoli, in un libro che non merita se non una veloce scorsa (I segreti di casa Pascoli, BUR, Milano 2006), ricorda giustamente il lato tragico della vita del poeta: l’assassinio del padre e quel che ne seguì. Ciò che sorprende però, nella poesia che apre la raccolta (Il giorno dei morti), è l’insistenza con cui si chiede il perdono dell’assassino: «Perdona all’uomo, che non so».  L’ipotesi di una vendetta, anche soltanto su carta, non è nemmeno contemplata.