Immerso nei volumi del suo studio
bibliografico, a Melzo, in provincia di Milano, Valentino Ronchi sa cosa sia un
buon libro: ne conosce la storia, ne apprezza la carta, i risvolti, le
copertine, le collane. Da qualche tempo Ronchi è anche scrittore in proprio e
con una frequenza rara inanella premi e riconoscimenti assai meritati. L’ultimo
in ordine di tempo, il Premio Carducci per la poesia under 40, è arrivato
grazie ad Anna e Mélanie (Lampi di stampa, 2012) che del solito libro di poesie – inevitabilmente
egocentrico o ideologicamente schierato – ha ben poco, anzi, forse nulla.
Quella di Anna e Mélanie, l’una milanese e l’altra della Normandia, coetanee i
cui destini si sfiorano per subito riallontanarsi, è una storia che in poesia
non si era mai vista. La loro è infatti soltanto una storia, narrata come per caso nella lingua dei versi senza che
l’autore mostri di sé nemmeno un’unghia (lo si intravvede qui e là, nei passi
più sentiti, sempre con grandissimo pudore). Ronchi gestisce il libro dalla
prima all’ultima pagina, muove come un paravento, con abilità, il distacco
ironico che tiene un personaggio lontano il giusto dall’animo di chi scrive,
esorcizzando così il demone lirico dell’autobiografia, per dare spazio alla vita
in tutto il suo splendore. Non tutte le pagine hanno la medesima pregnanza, ma
la scrittura è chiara, seria, condivisibile.
Di tutt’altra pasta sembrerebbe
un volume più recente, stavolta in prosa (un racconto lungo e quattro brevi),
che andrebbe letto anche soltanto per il titolo: Avevo litigato con uno svizzero. Lo svizzero in questione è passato
alla storia, anonimo, per essersi azzuffato con Dino Campana in uno dei suoi
vagabondaggi verso nord; non è però questa la trama del volume (vedano semmai,
i curiosi di vicende campaniane, La notte
della cometa di Sebastiano Vassalli), tutt’al più una nota di fondo, un
basso continuo di umorismo e confessioni sussurrate che è invece l’ossatura
stessa della prosa di Ronchi. Lo stile ricorda, si parva licet, quel gioiello di autobiografia dissimulata che è Patrimonio di Philip Roth, l’unico suo
volume veramente biografico e quello che invece lo sembra di meno (in forza di
uno stile sorvegliato e di temi cari, imprescindibili, affrontati di petto).
Ronchi racconta di sé come se non lo
facesse affatto, gioca con il paravento di cui sopra e nelle sue pagine entrano
Magenta, Milano, i desideri più o meno corrisposti della sua e nostra
generazione, dell’Europa italofona dei primi duemila. Vite di alcuni bambini nati negli anni Settanta spiegate attraverso le
loro attuali automobili: veri o falsi che siano, auto e rispettivi
proprietari sono veri sulla pagina, veri nella mente di chi legge e di chi
scrive, veri per sempre – come accade nei buoni libri scritti con intenzioni
buone.