mercoledì 10 settembre 2014

Valentino Ronchi - Avevo litigato con uno svizzero (Italic, 2014)


Immerso nei volumi del suo studio bibliografico, a Melzo, in provincia di Milano, Valentino Ronchi sa cosa sia un buon libro: ne conosce la storia, ne apprezza la carta, i risvolti, le copertine, le collane. Da qualche tempo Ronchi è anche scrittore in proprio e con una frequenza rara inanella premi e riconoscimenti assai meritati. L’ultimo in ordine di tempo, il Premio Carducci per la poesia under 40, è arrivato grazie ad Anna e Mélanie (Lampi di stampa, 2012) che del solito libro di poesie – inevitabilmente egocentrico o ideologicamente schierato – ha ben poco, anzi, forse nulla. Quella di Anna e Mélanie, l’una milanese e l’altra della Normandia, coetanee i cui destini si sfiorano per subito riallontanarsi, è una storia che in poesia non si era mai vista. La loro è infatti soltanto una storia, narrata come per caso nella lingua dei versi senza che l’autore mostri di sé nemmeno un’unghia (lo si intravvede qui e là, nei passi più sentiti, sempre con grandissimo pudore). Ronchi gestisce il libro dalla prima all’ultima pagina, muove come un paravento, con abilità, il distacco ironico che tiene un personaggio lontano il giusto dall’animo di chi scrive, esorcizzando così il demone lirico dell’autobiografia, per dare spazio alla vita in tutto il suo splendore. Non tutte le pagine hanno la medesima pregnanza, ma la scrittura è chiara, seria, condivisibile.
Di tutt’altra pasta sembrerebbe un volume più recente, stavolta in prosa (un racconto lungo e quattro brevi), che andrebbe letto anche soltanto per il titolo: Avevo litigato con uno svizzero. Lo svizzero in questione è passato alla storia, anonimo, per essersi azzuffato con Dino Campana in uno dei suoi vagabondaggi verso nord; non è però questa la trama del volume (vedano semmai, i curiosi di vicende campaniane, La notte della cometa di Sebastiano Vassalli), tutt’al più una nota di fondo, un basso continuo di umorismo e confessioni sussurrate che è invece l’ossatura stessa della prosa di Ronchi. Lo stile ricorda, si parva licet, quel gioiello di autobiografia dissimulata che è Patrimonio di Philip Roth, l’unico suo volume veramente biografico e quello che invece lo sembra di meno (in forza di uno stile sorvegliato e di temi cari, imprescindibili, affrontati di petto). Ronchi racconta di sé come se non lo facesse affatto, gioca con il paravento di cui sopra e nelle sue pagine entrano Magenta, Milano, i desideri più o meno corrisposti della sua e nostra generazione, dell’Europa italofona dei primi duemila. Vite di alcuni bambini nati negli anni Settanta spiegate attraverso le loro attuali automobili: veri o falsi che siano, auto e rispettivi proprietari sono veri sulla pagina, veri nella mente di chi legge e di chi scrive, veri per sempre – come accade nei buoni libri scritti con intenzioni buone.