Il più grande insegnamento che io abbia
avuto da Giorgio Orelli è il significato del
termine "gioventù". Mi capitava di telefonargli per metterlo a parte
dei miei progetti in ambito letterario, timoroso di subissare di troppe
informazioni una persona già in là con gli anni, solo per vedermi smentito ogni
volta tanto era l'entusiasmo all'altro capo del filo. Con baldanza gli raccontavo dei
tre libri la cui stesura occupava le mie giornate, e lui mi ribatteva
sorridente: "Eh, caro, io ne sto scrivendo sei; non si finisce mai! Dante
è un lavoro immenso, a tempo pieno...". Vedevo in me stesso e nei miei
coetanei metà della sua energia e del
suo rigore.
Per me lui è stato dapprima un nome,
pronunciato da genitori che furono suoi allievi alla scuola di commercio, o da
un nonno che era stato soldato del
"Caporale Orelli" durante gli anni di guerra. Da bellinzonese, poi,
non potevo non imbattermi, come moltissimi altri, nel poeta-in-bicicletta,
davanti alla Migros o sulla salita di Ravecchia. Soltanto in tempi recenti Giorgio
Orelli era diventato per me un referente insostituibile, grazie alla comune
passione per Gianfranco Contini.
Il ricordo cui non posso ripensare senza commozione
è però di tutt'altro genere. Si avvicinava il mio matrimonio e una mattina
trovai nella buca delle lettere due cartoncini d'auguri, spediti da "G.
Orelli". Il primo era di Giovanni, e iniziava così: "Caro Montorfani,
per una volta non parliamo di
letteratura..." (e invece sì, perché parlava di Ulisse e di Omero, con
lunghe e dotte citazioni a carattere nuziale). L'altro biglietto, firmato
"Giorgio e Mimma", era assai più stringato e si limitava a questi
pochi versi: "Figure parallele, ombre concordi, / aste di un sol quadrante". Bisognava
conoscere Montale, le sue Personae separatae, per cogliere la velata allusione
all'ambito matrimoniale, ad una vita passata assieme, con profonda complicità.
Una vita che lui aveva sperimentata a lungo e che augurava a me, in occasione del giorno più
importante.