La Sardegna di Stellino non
è l’isola delle vacanze. Accantonato l’idillio estivo, in lui rimane traccia dell’atavica
terra dei pastori, dal Padre padrone di
Ledda al Giorno del giudizio di Satta;
soprattutto molto cinema, molto far west, molta cultura americana. Ogni animale muore nella tana prende a
prestito il titolo da un verso di Robert Frost: «All animals are smothered in
their lairs». Non di animali parla però questo libro – aspro, duro, a tratti
durissimo – ma di uomini che, per incapacità o degrado, si riducono ad essere
tali, anzi peggio, in un mondo dove l’aria si fa sempre più asfittica e gli
spazi sempre più chiusi.
Merito di Stellino è l’aver
tradotto in una lingua efficace, poetica, scolpita nel marmo, un immaginario
che pare nato da una costola di The Road,
il capolavoro apocalittico di McCarthy. Pochi i personaggi della sua storia,
intenti a sopravvivere in una terra scampata al disastro: un uomo con il suo
pickup, una ragazzina zingara, qualche figura minore. In un libro composto di
così pochi elementi lo stile diviene il protagonista: la pagina non scivola in
fretta nell’assillo di esporre fatti, ma s’impone con calma sotto gli occhi del
lettore, assume forma grafica e detta il ritmo della lettura, le mani ben salde
sulle briglie del discorso.
Stupisce come l’autore sia riuscito
a passare da un romanzo improntato sull’oralità (Incendi) a un libro in cui i silenzi pesano come macigni. Non una
parola esce infatti dalle labbra della protagonista e i discorsi diretti degli
altri personaggi, privati delle virgolette, si riducono quasi a pensieri, a fiato
privo di suoni, frammenti di monologhi interiori.
Alessandro Stellino si candida
insomma al ruolo di anti-Dicker, l’autore ginevrino che spopola con La verità sul caso Harry Quebert: costringere
il lettore a girare pagina è senz’altro un merito, ancor di più se il
propulsore è nella lingua, nello stile, nel passo controllato della sintassi e
non in meccanismi polizieschi appresi nelle scuole di scrittura.
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