Per ragioni, in fondo, essenzialmente numeriche la Svizzera italiana non può vantare che una manciata di autori nel corso di tutto l’Ancien Régime. Stupisce però che, tra questi, almeno due appartengano, più che alla categoria degli scrittori o dei letterati tout court, a quella degli eruditi, degli umanisti e dei profondi conoscitori della storia del libro e della tradizione manoscritta. Francesco Ciceri nel Cinquecento e Jacopo Morelli due secoli più tardi, con esperienze di vita simili eppure radicalmente diverse (a Lugano e Milano il primo, a Venezia il secondo), sono stati entrambi oggetto di un rinnovato interesse critico in tempi recenti.
Del Ciceri (1521-1596) è apparso a stampa lo scorso mese di maggio, per le cure di Sandra Clerc, l’intero epistolario latino e volgare nella benemerita collana di “Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana”: una corposa opera in due volumi che apre una finestra sulla cultura letteraria luganese del secondo Rinascimento, al crocevia di corrispondenze tra Basilea, Milano, Roma e Madrid, con interlocutori del calibro di Johannes Oporinus o di Paolo Manuzio. Una pubblicazione, è da credere, della quale si parlerà ancora a lungo, per la messe di materiali che rimette sotto gli occhi degli studiosi e per le piste di ricerca che apre in più direzioni.
A Morelli (1745-1819) è dedicato invece un libro più recente, edito dalla Fondazione Culturale della Collina d’Oro e dall’editore Giampiero Casagrande. Per dare a Cesare quel che è di Cesare (in questo caso: a Venezia cioè che è proprio della città lagunare), il legame di Jacopo Morelli con le terre ticinesi si limita all’origine della famiglia paterna, nativa di Casaccia, tra Barbengo, l’attuale comune di Collina d’Oro e l’antica parrocchia di Morcote, dai cui archivi Laura Luraschi Barro ha spremuto le poche informazioni che era possibile spremere sugli antenati dell’erudito veneziano.
Alla figura e all’attività di Morelli quale bibliotecario di San Marco, carica tra le più prestigiose nella Venezia di fine Settecento, sono dedicati gli altri tre contributi del volume, firmati da esperti in materia quali sono Alessia Giachery, Susy Marcon e Stefano Trovato, tutti a diverso titolo impiegati nella Biblioteca Nazionale Marciana. Il lettore scoprirà così un uomo, l’abate Morelli, dalla personalità forte e passionale («bibliotecario di carattere» lo definisce con acume Stefano Trovato), capace di arricchire e conservare al meglio un catalogo librario tra i più ricchi d’Italia, in tempi per di più non semplici per la politica della tormentata penisola (l’apice della sua carriera coincide con le campagne napoleoniche e con il successivo ritorno degli austriaci nel Lombardo-Veneto). Un uomo il cui profilo si è identificato in toto con l’istituzione per la quale lavorava (dal 1778 alla morte), al punto che la biblioteca veneziana fu definita la sua «Amorosa». I tre contributi citati forniscono, nell’insieme, una miniera di notizie sulla persona, sui carteggi, sullo stato attuale dell’archivio morelliano e sulla fama che l’abate ebbe presso letterati e studiosi, in vita e nei secoli successivi. Alla fine, se il Morelli (che a quanto è dato di sapere non toccò mai questi lidi) può dirsi “ticinese” soltanto per l’unghia di un piede, è un dato che passa giustamente in secondo piano.
lunedì 15 dicembre 2014
sabato 25 ottobre 2014
Mario Luzi: uno sguardo «caritatevole e lucente»

La «chimera» del conterraneo Dino Campana, la figura misteriosa e schiva celebrata nei suoi Canti orfici (1913), potrebbe allora aver additato a Luzi una via alternativa, un luogo di parole potenti e di desideri non censurati, sorretto da un lessico alto entro ammalianti strutture sintattiche: «Non so se tra rocce il tuo pallido / viso m’apparve, o sorriso / di lontananze ignote / fosti, la china eburnea / fronte fulgente o giovine / suora de la Gioconda». Non sono lontani i versi di Alla Vita, pubblicati nella prima raccolta luziana (La barca, 1935), dove persino la reiterazione ravvicinata del suffisso /–enti/ devo molto alla poesia di Campana: «Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti; / la Madonna dagli occhi trasparenti / scende adagio incontro ai morenti».
Una «figura non ancora conosciuta» ritorna con costanza nella produzione luziana degli anni successivi, sia in Quaderno gotico («ah già di tanto a lungo sospirata / dietro quel velo d’anni e di stagioni / che un dio forse s’accinge a lacerare»), sia in Primizie del deserto, del 1952, dove si esplicita proprio in forma di sfuggente «chimera»: «S’avvia tra i muri, è preda della luce... / forse eri tu, ora è un’apparizione / [...] / È una vaga figura, non ha requie... / è nostra, la credevo una chimera / se alcuna ne appariva per miracolo / sotto aride pendici inconsolata». Intimamente cristiana sin dai suoi albori, la poesia di Luzi ha attraversato tutto il Novecento divisa tra il fermo convincimento della bontà del creato e il tormento di non poterla esprimere con parole adeguate. Il suo essere “nel” mondo si è sovente esplicitato – lo ha notato Giorgio Orelli in una delle sue pagine critiche meno segnate dal tecnicismo – nell’uso quasi ossessivo della congiunzione «mentre»: specchio linguistico del suo porsi dentro il mondo e dentro il tempo, in una prospettiva di immanenza e di feconde aperture metafisiche prossima a quella da cui scaturivano i versi di Clemente Rebora – altro nome (se un altro va fatto) degli archetipi luziani primonovecenteschi.
Il riproporsi di questo sguardo «caritatevole e lucente» sulla realtà delle cose è facilmente verificabile anche nell’ultima e assai prolifica stagione della sua poesia, ora disponibile in un unico volume, Poesie ultime e ritrovate, curato da Stefano Verdino per l’editore Garzanti. La povertà del prodotto tipografico e le scelte infelici di carta e copertina (anche su queste si misura lo stato di crisi culturale della nostra epoca) sono ampiamente risarcite dal contenuto: 800 pagine che riprendono le tre raccolte della maturità, scritte tra gli 85 e i 90 anni – Sotto specie umana (1999), Dottrina dell’estremo principiante (2004) e Lasciami, non trattenermi (2009) –, oltre ad un corposo mannello di poesie rare, inedite o ritrovate. A quest’ultimo gruppo appartiene il testo che qui si ripropone nella sua interezza, steso da Luzi su un’agenda del “Banco di Sicilia” nel 2003 e apparso postumo in una plaquette commemorativa a tiratura limitata voluta da Adonis e dall’editore Tallone a cinque anni dalla scomparsa del poeta (28 febbraio 2010). Ritorna, ancora una volta, il dialogo diretto con il mondo, frammentato e balbettante non per l’assenza di risposte alle domande di chi scrive, bensì per la sua inadeguatezza all’ascolto («mondo, mi hai parlato / e non ti ho udito»). Riecheggiano, oltre al dettato di un amico-lontano come Andrea Zanzotto («Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente»), i versi più alti di Dottrina dell’estremo principiante, là dove Luzi chiedeva al mondo «sii lieve, abbi indulgenza / nella tua bellezza, / abbila ancora nella tua ferocia / per il mio nullo valore».
Etichette:
Andrea Zanzotto,
Aragno,
Clemente Rebora,
Dino Campana,
Eugenio Montale,
Garzanti,
Giorgio Orelli,
Giuseppe Ungaretti,
Mario Luzi,
Mendrisio,
Paolo Andrea Mettel,
Poesia,
Stefano Verdino
mercoledì 10 settembre 2014
Valentino Ronchi - Avevo litigato con uno svizzero (Italic, 2014)
Immerso nei volumi del suo studio
bibliografico, a Melzo, in provincia di Milano, Valentino Ronchi sa cosa sia un
buon libro: ne conosce la storia, ne apprezza la carta, i risvolti, le
copertine, le collane. Da qualche tempo Ronchi è anche scrittore in proprio e
con una frequenza rara inanella premi e riconoscimenti assai meritati. L’ultimo
in ordine di tempo, il Premio Carducci per la poesia under 40, è arrivato
grazie ad Anna e Mélanie (Lampi di stampa, 2012) che del solito libro di poesie – inevitabilmente
egocentrico o ideologicamente schierato – ha ben poco, anzi, forse nulla.
Quella di Anna e Mélanie, l’una milanese e l’altra della Normandia, coetanee i
cui destini si sfiorano per subito riallontanarsi, è una storia che in poesia
non si era mai vista. La loro è infatti soltanto una storia, narrata come per caso nella lingua dei versi senza che
l’autore mostri di sé nemmeno un’unghia (lo si intravvede qui e là, nei passi
più sentiti, sempre con grandissimo pudore). Ronchi gestisce il libro dalla
prima all’ultima pagina, muove come un paravento, con abilità, il distacco
ironico che tiene un personaggio lontano il giusto dall’animo di chi scrive,
esorcizzando così il demone lirico dell’autobiografia, per dare spazio alla vita
in tutto il suo splendore. Non tutte le pagine hanno la medesima pregnanza, ma
la scrittura è chiara, seria, condivisibile.
Di tutt’altra pasta sembrerebbe
un volume più recente, stavolta in prosa (un racconto lungo e quattro brevi),
che andrebbe letto anche soltanto per il titolo: Avevo litigato con uno svizzero. Lo svizzero in questione è passato
alla storia, anonimo, per essersi azzuffato con Dino Campana in uno dei suoi
vagabondaggi verso nord; non è però questa la trama del volume (vedano semmai,
i curiosi di vicende campaniane, La notte
della cometa di Sebastiano Vassalli), tutt’al più una nota di fondo, un
basso continuo di umorismo e confessioni sussurrate che è invece l’ossatura
stessa della prosa di Ronchi. Lo stile ricorda, si parva licet, quel gioiello di autobiografia dissimulata che è Patrimonio di Philip Roth, l’unico suo
volume veramente biografico e quello che invece lo sembra di meno (in forza di
uno stile sorvegliato e di temi cari, imprescindibili, affrontati di petto).
Ronchi racconta di sé come se non lo
facesse affatto, gioca con il paravento di cui sopra e nelle sue pagine entrano
Magenta, Milano, i desideri più o meno corrisposti della sua e nostra
generazione, dell’Europa italofona dei primi duemila. Vite di alcuni bambini nati negli anni Settanta spiegate attraverso le
loro attuali automobili: veri o falsi che siano, auto e rispettivi
proprietari sono veri sulla pagina, veri nella mente di chi legge e di chi
scrive, veri per sempre – come accade nei buoni libri scritti con intenzioni
buone.
mercoledì 30 luglio 2014
L'ultimo Orelli sotto il nome di Robert Walser
Giorgio Orelli
aveva un bel dirci, con la dolce insistenza dei repetita iuvant, che letteratura deriva da «lettera» e che perciò
l’attenzione verbale (l’auscultazione, l’accertamento) è un passaggio
imprescindibile di ogni buona critica letteraria. Verità è che, nonostante
l’amicizia e la fiducia che sempre si dà ad un grande maestro, gli abbiamo
creduto in pochi, e nessuno probabilmente con l’energia e la dedizione che si
sarebbe aspettato da noi, frenati da obiezioni personali oltre che tipiche del
nostro tempo, lontano dai primi entusiasmi critici per forma e struttura. Parlo
per me: il principale ostacolo ad una discesa così generosa nel tecnicismo,
dentro le lettere stesse di cui si compone la migliore poesia (fino a
riconoscere un valore non solo estetico ma semantico agli anagrammi, ai
palindromi, alle geometrie più estreme di suono e senso), è il sospetto che il
formalismo sia refrattario alla vita, che una lettura ravvicinata delle lettere
– pur corretta, pur brillante – sconfini giocoforza in un’arida analisi di
laboratorio.
Che bello
ritrovarci oggi smentiti, proprio in questa obiezione, da un volumetto postumo
curato da Yari Bernasconi e pubblicato dalle Edizioni Casagrande. Al centro, ça va sans dire, ancora le lettere:
tutte (o quasi), dalla A alla Z, come si conviene ad un vero abbecedario, con
la vita che si insinua tra le pagine in forza di una formula rigida ed elastica
al tempo stesso, dove Orelli può dilungarsi in gustosi ricordi personali senza
rinunciare agli accertamenti verbali cui sempre inclinava il suo prodigioso
orecchio. Molti, specie i più anziani, vi troveranno aneddoti che gli abbiamo
sentito narrare a voce più e più volte, sempre uguali eppure sempre diversi,
finalmente cristallizzati in pochi paragrafi di pregevole fattura. Non mancano
i suoi maestri (diretti ed indiretti, da Contini ad Anceschi a Roman Jakobson)
e nemmeno gli autori a lui più cari (Dante, Goethe, Pascoli e l’annosa questione
attorno al Fiore).
Chi confronti
però la prima versione dell’Abbecedario,
apparsa sulla rivista «Viceversa» nel maggio del 2011 per il novantesimo
compleanno, non potrà fare a meno di notare uno scarto, direi quasi un balzo in
avanti, nelle aggiunte di questa nuova edizione, cui il poeta lavorava nelle
ultime settimane di vita e che ne è divenuta quasi un piccolo testamento.
All’appello mancava ad esempio, nel 2011, una voce come ARCHITETTURA: «Io la
penso come Robert Walser. In una sua pagina sull’architettura dice che va bene
quello che fanno certi architetti, anche famosi, trovando forme nuove; ma
bisognerebbe anzitutto appagare le esigenze dei più poveri. E costruire delle
case per i più poveri, che sono milioni e milioni. Questa è l’idea
dell’architettura che mi commuove. La casa giusta, adatta ai poveri, chi gliela
costruisce? Anche un grande architetto può farlo. Non dev’essere una
catapecchia» (p. 16).
Sotto il nome
di Robert Walser, come dire nel segno di un’esigenza forte di umiltà e
giustizia (la «casa giusta» rimanda inevitabilmente ad un mondo “giusto”, ad
una morte “giusta”, ad una poesia “giusta”), possono ben iscriversi queste
nuove pagine di Orelli, che al prosatore svizzero-berlinese dedica l’ultimo
capitolo: «Io sono walseriano per la pelle. [...] Il pregio fondamentale di
Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. [...] Ottenere
molto con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del
poeta... E Walser ne è maestro». Con la disponibilità propria della vecchiaia,
Orelli si china in altre pagine sulla sua infanzia, sugli anni al Collegio
Papio di Ascona e sull’antica passione per la chitarra e per il canto.
Attendiamo dunque con ansia di conoscere le poesie dell’Orlo della vita, nelle quali ritornano, all’altro estremo della
parabola, gli stessi temi e le medesime intonazioni. Il quadro, a quel punto,
sarà completo.
Etichette:
Dante,
Gianfranco Contini,
Giorgio Orelli,
Goethe,
Luciano Anceschi,
Pascoli,
Poesia,
Robert Walser,
Roman Jakobson,
Svizzera,
Yari Bernasconi
lunedì 7 luglio 2014
Il primo "cretino" fu Mozart. Risposta risentita a Paolo Isotta
Da tempo leggo le cronache e i commenti musicali di Paolo Isotta sul «Corriere della Sera», apprezzandone la competenza, lo stile e il coraggio. Capita purtroppo anche ad un grande giornalista, scaldandosi al fuoco della propria fama e delle proprie granitiche convinzioni, di passare clamorosamente il segno. Presentando la nuova stagione lirica, sinfonica e di balletto dell'opera di Roma (sul «Corriere della Sera» del 5 luglio 2014 a pagina 51), in un breve commento nel quale loda giustamente l'eccellente lavoro speso da Riccardo Muti in questi anni, Isotta si concede di dare del "cretino" a chiunque si serve ancora del nome Amadeus in luogo del più ufficiale Gottlieb, con il quale Mozart fu registrato all'anagrafe e chiamato, con Wolfgang, dai suoi contemporanei. Ora, si sarebbe potuto cogliere l'occasione per ricordare che «Ama-deus» è traduzione latina di «Gott-lieb», e che fu lo stesso Mozart a servirsene per primo, con tutta l'autoironia che contraddistingueva la sua persona, in alcuni scambi epistolari. Si sarebbe potuto dire che il mito Amadeus, legato a questa forma del nome, è postumo al compositore, coniato e favorito dai primi biografi. Si sarebbe insomma potuto fare un breve quanto utile discorso culturale. Invece, chissà perché, Isotta ha propeso per l'insulto. Se tanto mi dà tanto, meglio sentirsi cretino con Mozart che colto con Paolo Isotta. Viva Amadeus, viva la buona musica.
mercoledì 4 giugno 2014
Mario Luzi a Mendrisio
Nel centenario
della nascita, e a nove anni dalla sua scomparsa, Mario Luzi non ci ha mai
veramente abbandonati. «Lasciami, non
trattenermi» è il grido, sussurrato alla vita, con il quale si era chiusa –
con il libro omonimo – la sua carriera di poeta, ma quel grido non poteva
essere accolto dagli amici che, come Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino, da
allora non hanno mai smesso di divulgare, soprattutto presso i giovani, la voce
dello scrittore fiorentino, tra i massimi del Novecento europeo. Il punto, se
così si può dire, lo aveva fatto egli stesso nel 2005 preparando un Autoritratto per Garzanti con una
selezione dei versi a lui più cari; eppure con simili giganti non si è mai
finito di imparare, leggere, confrontare: lo si è visto a marzo al convegno per
il centenario presso l’Università Cattolica di Milano, primo atto di un ciclo
di festeggiamenti che per qualche settimana farà tappa a Mendrisio.
Presentata al pubblico il 27 maggio, curata dagli stessi Mettel e Verdino con l’aiuto di Giovanni Fontana,
Simone Soldini e Giovanna Uzzani, la mostra Mario
Luzi. Le campagne, le parole, la luce ben si inserisce nelle recenti
esposizioni di Casa Croci dedicate a poeti del XX secolo (Orelli nel 2011 e
Jaccottet nel 2013). Nelle piccole celle della casa-alveare si potranno vedere
così, fino al 24 agosto, abbozzi luziani scritti con grafia minuta, traduzioni
inedite e plaquettes di pregio, all’interno di un percorso costruito con
sobrietà e prudenza, filologicamente ineccepibile. Tra le chicche, una macchina
per scrivere Olivetti acquistata da Leone Traverso negli anni trenta e
utilizzata da Luzi fino alla morte, o gli appunti di un saggio su Bilenchi
aperto da uno Snoopy a mo’ di capolettera. Umiltà, capacità di ascolto e
(delicato) tormento interiore sono le caretteristiche prime del poeta, così
come traspaiono dalla mostra di Mendrisio. Prossima tappa, nel vicino Museo
d’arte a partire dal 16 luglio, Mario
Luzi. Memorie di terra toscana, dedicata agli amici artisti.
Etichette:
Garzanti,
Giorgio Orelli,
Giovanna Uzzani,
Giovanni Fontana,
Leone Traverso,
Mario Luzi,
Mendrisio,
Paolo Andrea Mettel,
Philippe Jacottet,
Poesia,
Simone Soldini,
Stefano Verdino
Iscriviti a:
Post (Atom)