lunedì 11 novembre 2013

In morte di un "giovane" poeta


Il più grande insegnamento che io abbia avuto da Giorgio Orelli è il significato del termine "gioventù". Mi capitava di telefonargli per metterlo a parte dei miei progetti in ambito letterario, timoroso di subissare di troppe informazioni una persona già in là con gli anni, solo per vedermi smentito ogni volta tanto era l'entusiasmo all'altro capo del filo. Con baldanza gli raccontavo dei tre libri la cui stesura occupava le mie giornate, e lui mi ribatteva sorridente: "Eh, caro, io ne sto scrivendo sei; non si finisce mai! Dante è un lavoro immenso, a tempo pieno...". Vedevo in me stesso e nei miei coetanei metà della sua energia e del suo rigore.
Per me lui è stato dapprima un nome, pronunciato da genitori che furono suoi allievi alla scuola di commercio, o da un nonno che era stato soldato del "Caporale Orelli" durante gli anni di guerra. Da bellinzonese, poi, non potevo non imbattermi, come moltissimi altri, nel poeta-in-bicicletta, davanti alla Migros o sulla salita di Ravecchia. Soltanto in tempi recenti Giorgio Orelli era diventato per me un referente insostituibile, grazie alla comune passione per Gianfranco Contini.
Il ricordo cui non posso ripensare senza commozione è però di tutt'altro genere. Si avvicinava il mio matrimonio e una mattina trovai nella buca delle lettere due cartoncini d'auguri, spediti da "G. Orelli". Il primo era di Giovanni, e iniziava così: "Caro Montorfani, per una volta non parliamo di letteratura..." (e invece sì, perché parlava di Ulisse e di Omero, con lunghe e dotte citazioni a carattere nuziale). L'altro biglietto, firmato "Giorgio e Mimma", era assai più stringato e si limitava a questi pochi versi: "Figure parallele, ombre concordi, / aste di un sol quadrante". Bisognava conoscere Montale, le sue Personae separatae, per cogliere la velata allusione all'ambito matrimoniale, ad una vita passata assieme, con profonda complicità. Una vita che lui aveva sperimentata a lungo e che augurava a me, in occasione del giorno più importante.

lunedì 29 luglio 2013

Vittorio Sereni, il poeta dell'Europa


«A quest’ora / innaffiano i giardini in tutta Europa». Così si apre, con un attacco memorabile, Concerto in giardino. Scritta nel 1935, non è la prima poesia di Sereni, ma per molto tempo fu il testo al quale l’autore affidò l’incarico di accogliere il lettore sulla soglia del suo primo libro. Il tempo fisso, puntiforme, declinato al presente («A quest’ora») è la premessa alla dilatazione dello sguardo, fino ad immaginare uno spazio di dimensioni europee: un continente che ancora non conosce le tragedie della guerra e dove il gesto buono, positivo, dell’innaffiare i giardini si fa simbolo di un destino comune, di una storia condivisa.
Nato cento anni or sono a Luino, Sereni è probabilmente il poeta in cui il nome d’Europa compare con maggiore frequenza, e sempre in passi di grande investimento emotivo. «Europa Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio / esile mito tra le schiere dei bruti, / sono un tuo figlio in fuga» scrive in Italiano in Grecia, poco dopo aver fissato a Belgrado «una tranquilla ora d’Europa». L’abitudine a considerare lo spazio in termini geografici, oltre i confini della provincia in cui è cresciuto, dev’essergli stata suggerita dalla vicinanza con la “frontiera” elvetica di Zenna, un’immagine che è diventata ben presto metafora di un orizzonte più vasto, dolce e drammatico al tempo stesso, a causa delle continue peregrinazioni cui l’hanno costretto gli anni di guerra.
Sereni ha condiviso insomma, con una generazione di ritardo, la sorte di Giuseppe Ungaretti, poeta-milite che per i natali ad Alessandria d’Egitto ha sempre guardato da sud alla realtà europea, mai dimentico dei suoi legami con il Mediterraneo. Altre coste divennero però tristemente celebri nei mesi in cui il poeta di Frontiera si trovava prigioniero nell’Africa del Nord: «Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. / Per questo qualcuno stanotte / mi toccava la spalla mormorando / di pregar per l’Europa» (Diario d’Algeria).

lunedì 8 luglio 2013

Alessandro Stellino - Ogni animale muore nella tana (Il Maestrale)


La Sardegna di Stellino non è l’isola delle vacanze. Accantonato l’idillio estivo, in lui rimane traccia dell’atavica terra dei pastori, dal Padre padrone di Ledda al Giorno del giudizio di Satta; soprattutto molto cinema, molto far west, molta cultura americana. Ogni animale muore nella tana prende a prestito il titolo da un verso di Robert Frost: «All animals are smothered in their lairs». Non di animali parla però questo libro – aspro, duro, a tratti durissimo – ma di uomini che, per incapacità o degrado, si riducono ad essere tali, anzi peggio, in un mondo dove l’aria si fa sempre più asfittica e gli spazi sempre più chiusi.
Merito di Stellino è l’aver tradotto in una lingua efficace, poetica, scolpita nel marmo, un immaginario che pare nato da una costola di The Road, il capolavoro apocalittico di McCarthy. Pochi i personaggi della sua storia, intenti a sopravvivere in una terra scampata al disastro: un uomo con il suo pickup, una ragazzina zingara, qualche figura minore. In un libro composto di così pochi elementi lo stile diviene il protagonista: la pagina non scivola in fretta nell’assillo di esporre fatti, ma s’impone con calma sotto gli occhi del lettore, assume forma grafica e detta il ritmo della lettura, le mani ben salde sulle briglie del discorso.
Stupisce come l’autore sia riuscito a passare da un romanzo improntato sull’oralità (Incendi) a un libro in cui i silenzi pesano come macigni. Non una parola esce infatti dalle labbra della protagonista e i discorsi diretti degli altri personaggi, privati delle virgolette, si riducono quasi a pensieri, a fiato privo di suoni, frammenti di monologhi interiori.
Alessandro Stellino si candida insomma al ruolo di anti-Dicker, l’autore ginevrino che spopola con La verità sul caso Harry Quebert: costringere il lettore a girare pagina è senz’altro un merito, ancor di più se il propulsore è nella lingua, nello stile, nel passo controllato della sintassi e non in meccanismi polizieschi appresi nelle scuole di scrittura.

lunedì 17 giugno 2013

Tommaso Soldini - Uno per uno (Casagrande)


Uno per uno è un oggetto letterario insolito: a tratti molto buono, a tratti invece non compiuto. Il titolo parrebbe una contrazione egoistica del motto “Uno per tutti, tutti per uno”, del quale si salvino soltanto gli estremi. È questa la chiave d’accesso al libro, nato dalla giustapposizione di più storie narrate in prima persona, come una lunga confessione corale: Glauco, Maura, Davide, Maddalena, Martino, Vittorio, Esra, Simone… A riunire le loro voci un escamotage ben noto alla novellistica medievale, una cornice, espediente che in questo caso non riesce però a traghettare la misura breve del capitolo nella misura lunga del romanzo, portando in luce la sua natura ibrida, irrisolta, di una torta non cotta a puntino.
Memore del crocevia di destini che fu Casablanca, Soldini porta in Marocco, a Essaouira, i protagonisti del suo libro, ciascuno con la sua parte di sconfitte e disillusioni. Sulla costa africana si incrociano così i desideri della donna di origini meridionali tormentata da problemi di peso, dell’architetto senza lavoro ma con troppi soldi, della ragazza affascinata dalle spiritualità orientali e della giovane turca con un passato terribile di prostituzione e violenza.
L’intenzione dell’autore, dichiarata nella quarta di copertina, era «toccare i nervi scoperti di tutta una generazione» – la sua (la nostra), di chi, indipendentemente dalla provenienza, è cresciuto nella prospera Svizzera degli anni 80 e 90. Letto il libro, questo non può evitare di mostrare purtroppo ciò che più lo caratterizza in negativo: un deficit di speranza e un eccesso di stereotipo. Il dubbio insomma è che una carrellata di casi-limite non sia il modo più indicato per descrivere la crisi di una generazione, tanto quanto le notizie estreme che leggiamo ogni giorno sui giornali finiscono per mancare il bersaglio di una realtà insieme più tragica e più bella (attraente nel senso pieno del termine), cosa a cui la letteratura ha sempre guardato con interesse e a cui guarderà sempre.