Parto da un dubbio: se la prosa
di Giovanni Orelli non sia in fondo oggetto eccentrico rispetto alla tradizione
letteraria italiana, almeno quanto lo fu quella di Gadda. E così come è
esistita una funzione Gadda, si
potrebbe quasi azzardare una funzione Orelli
che spieghi gran parte dell’espressionismo letterario svizzero di lingua
italiana. Tutto ha inizio con L’anno
della valanga (1965), un romanzo che ha pochi eguali in Ticino e pochissimi
tra quelli che il Ticino lo abbiano messo veramente a tema (Il fondo del sacco, Il Signore dei poveri morti). Lì incontriamo per la prima volta il
personaggio-tipo di Orelli: un giovane brillante e disilluso, acuto fino ai
limiti del cinismo, in pacata lotta con la tradizione da cui proviene (ci sarà
forse anche qualcosa di autobiografico); e lì lo scrittore di Bedretto inizia a
saggiare sulla pagina un modus scribendi
che ha molte affinità con l’istituto della bestemmia. Intendo la bestemmia come
sistema retorico, come voce di un autore che punti il dito verso Dio e gli dica
«Io non sono d’accordo. Io ti sfido». Può darsi che un simile atteggiamento
letterario abbia dato fastidio, negli anni, a qualche lettore, eppure la sua
efficacia è innegabile, così come è evidente che al fondo, alla radice, il
problema suscitato sia dei più seri. Nei libri successivi, da La festa del Ringraziamento (1972) a Da quaresime lontane (2006), cambiano i temi
e le ambientazioni ma il “modulo” rodato non subisce che lievi ritocchi. Si
assiste semmai al frammentarsi sempre più aspro della sintassi, all’infittirsi
di citazioni e rimandi, insomma al venir meno della tensione narrativa in
favore del discorso sociologico e culturale. Di qui la fama di scrittore
difficile, non per tutti i palati. Se è vero però che il metodo è imposto
dall’oggetto, l’unica via è tornare a leggere Orelli con gli strumenti che la
sua prosa richiede: il bisturi, il dizionario, l’occhio indagatore e colto di chi
abbia molto tempo a disposizione e molte letture alle spalle.
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